Lavoro

Stare insieme appassionatamente (uffici, giornali) non servirà più a niente?

11 Giugno 2020

Capita che la Rete restituisca messaggi in bottiglia di un qualche sopravvissuto del Novecento che invoca un ritorno alla normalità, una sorta d’embrassons-nous neanche tanto figurato, ma fisico, perdio, molto fisico. Notato per esempio l’altro giorno Goffredo Buccini, inviato del Corriere della Sera (facciamo anche un po’ di storia, forza: il cronista che scodellò l’invito a comparire a Berlusconi, la mattina che doveva aprire la conferenza mondiale sulla criminalità a Napoli, colpaccio assoluto). Scrive Buccini: «Eliminare le postazioni fisiche dei giornalisti in redazione cambia radicalmente l’essenza del giornale, che non è Google, non una piattaforma immateriale, ma carne, parole, idee vive e non conference call del cazzo…»
Qualche settimana prima, ancor più nel pieno della tragedia, se ne lamentava Alberto Infelise della Stampa: «Sì, certo, tutti a casa a lavorare per sempre. Bello eh. Però, ecco, il confronto con i colleghi, le discussioni, la creazione di una coscienza di gruppo di lavoratori, la solidarietà, la vicinanza. Insomma, grazie. Ma no grazie». Cito Buccini e Infelise, tra i tantissimi che hanno nostalgia di una vita precedente, perché li conosco, e ne so la passione. Ma se fossero fuori dal tempo?

Perché un molto contemporaneo come Maurizio Belpietro, e dico molto perché è un giornalista-editore, due parti in commedia dunque, racconta tutto un altro film. Dice che la crisi ha paralizzato la pubblicità, e questo è incontestabile, ammette il tragico errore di aver immaginato per la Verità (e altri giornali appena acquisiti) una sede faraonica di mille metri nei pressi della Stazione Centrale di Milano, forse ne basteranno 300, aggiunge, racconta anche con un pizzico di orgoglio che persino nella fase drammatica la Verità ha guadagnato copie e le ha guadagnate stando distanti, separati, separatissimi, senza quella cosa lì anche un po’ retorica di noi giornalisti che dobbiamo urlare, scazzarci, litigare, per cavare il meglio. Per cui, ecco la conclusione, tutti a casa fino a dopo l’estate. Smart working come se piovesse.
Tra l’altro, è di queste ore una decisione piuttosto significativa di Gedi torinese, nuovo editore di Repubblica. L’azienda avrebbe deciso un numero massimo di persone che potranno stazionare quotidianamente all’interno del giornale: 178 su un totale ovviamente molto più alto. Quindi una rotazione dei dipendenti, ma non solo. Il fatto più significativo è che nessuno avrà più una sua postazione fissa. Cioè, si arriverà al lavoro come fosse sempre il primo giorno da stagista: “Ehi tu, coso, mettiti alla prima scrivania libera che trovi!”. È forse questo, l’elemento antropologico più significativo: un obbligo a non affezionarsi a un luogo, a quella piccola cerimonia privata del disporre le proprie cose dentro un mondo pubblico, com’è una scrivania in mezzo a tante altre. E a non fare più comunità di redazione, un altro degli snodi epocali di un mestiere che sembra perdersi in sé stesso. A non vedere il capo, o magari vederne un altro, di un altro settore, insomma a perdere (per sempre?) quei riferimenti anche un po’ protettivi che ci hanno formati nel tempo. Insomma, in un concetto, a dimenticare quella vita sociale per come l’avevamo immaginata fino a quel momento.
E forse è ormai una battaglia di retroguardia legare indissolubilmente il successo del giornale, il suo guadagnare o perdere copie, all’idea dello stare insieme fisicamente. Appassionatamente.

Perché tra l’altro, questo tempo amaro di separazione dagli affetti, ci dice che i giornali perdono/ guadagnano come prima, e forse, addirittura, perdono meno di prima, quando le liturgie erano ancora da pienissimo Novecento. La morale dunque sarebbe che si può fare un buonissimo prodotto anche stando ognuno a casetta sua? Nessuno lo può dire apertamente, e nessuno, beninteso, ne può offrire la minima prova convincente. Anche perché le controprove di questi ultimi anni, quando sì, stavamo tutti insieme appassionatamente, non è che siano venute benissimo. Soprattutto perché nessuno vuole offrire il destro alle aziende, agli editori, per poter concludere: vedete ragazzi come si lavora bene da casa, che prodottino giusto che va in edicola? Notoriamente gli editori, così come i lettori, di giornalismo non capiscono un cazzo. Badano giustamente ai conti, e adesso, maledizione, hanno il coltello dalla parte del manico.
Tutte le aziende, adesso, hanno quel coltello. E lo brandiscono. La punta è lucida, mette anche un po’ paura. La cosa incredibile è che fanno la faccia cattiva, senza ammettere che sono andate sotto schiaffo – e qui parliamo di visione – soltanto per loro responsabilità. Perché tutti quelli che in questi anni hanno immaginato il gigantismo degli uffici, lo skyline che blocca il fiato, adesso stanno valutando se sia il caso di “approfittare” di una tragedia planetaria per ripensare il “modo” del lavoro. Lo stare insieme, appunto restando separati (e in casa). Forse un po’ troppo comodo, cari signori. Un pezzo di qualche giorno fa di Ettore Livini su Repubblica raccontava perfettamente la desolazione di CityLife a Milano.

Forse però, prima che siano altri a scodellarci senza appello la decisione finale, è utile che una riflessione sincera parta da noi, da cosa vogliamo, dalle necessità reali e da quelle più artificiali che ci siamo creati nel tempo. E la prima questione è forse quella che ne racchiude mille altre conseguenti: per lavorare, e lavorare bene, è necessario stare insieme (fisicamente)? È ancora necessaria quella condizione sociale che contempla la carne, il vedere, il toccare, l’avvicinarsi, lo sfiorarsi e tutto questo è indispensabile a un buon prodotto finale? Vero, sarebbe forse drammatico constatare che si può fare un buon prodotto senza neppure guardarsi in volto, ma ognuno da un algido computer. Abbatterebbe secoli di celebrazione. Di auto-celebrazione. Riscriverebbe la storia dei rapporti umani applicati al lavoro, quando si dice che una certa condizione, un certo clima interno, uno stare insieme collettivo, rendono le idee più piene e produttive. Che non debba accadere di pensare, e di concludere, che è stata tutta una nostra costruzione, che è servita soprattutto a noi, alla nostra socialità personale, per stare meglio noi. E magari per stare lontani dalle nostre case.
Ora lo spettro è esattamente rientrare in quelle case. Ci mette paura?
Ma soprattutto: ci renderebbe più aridi? Ci obbligherà, ci obbligherebbe, a riscrivere i parametri della nostra socialità, laddove era il posto di lavoro a delinearne i confini. Tutto si creava lì, e lì ora tutto potrebbe distruggersi. Avremmo da ripensare il fuori, lo stare tra la gente, fare la fatica della conoscenza senza più l’aiutino aziendale. Insomma: abbandonare un cartellino da timbrare è così disdicevole?

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