Lavoro
Sono tanti e stanno per rubarti il lavoro: sono i robot
Agli inizi dell’Ottocento il movimento luddista poteva reagire all’evoluzione sociale impressa dalla tecnologia distruggendo le macchine installate nelle fabbriche. Sono passati poco più di due secoli dalle rivolte di Nottingham contro i telai meccanici, e contro la miseria che erano accusati di diffondere insieme alla disoccupazione; la nuova ondata di macchine che secondo la Harvard Business Review e secondo il Boston Consulting Group è destinata a trasformare il mondo del lavoro potrebbe essere così sofisticata da sfuggire persino ai tentativi di sabotaggio da parte del 25% dei lavoratori che perderà il posto nei prossimi anni. Il talento che viene messo in gioco dai robot infatti non insiste più sulla sostituzione dei compiti muscolari degli uomini, ma punta direttamente a rimpiazzare le risorse intellettuali delle persone che adesso svolgono funzioni impiegatizie. Nel 2025 gli androidi potrebbero essere così perspicaci da non farsi trovare sul posto in cui la futura legione di disoccupati li attenderà per farli a pezzi con spranghe e mazze da baseball: prevederanno i piani di sabotaggio, immagineranno le imboscate che li attendono, giocheranno d’astuzia con i loro avversari biologici – e avranno la meglio, almeno secondo le previsioni degli esperti americani. La potenza è nulla senza controllo, e nel rapporto tra muscoli e sagacia i ruoli si invertiranno – con gli uomini nei panni del golem, e il software nella parte del mago.
Nel 1979 Douglas Hofstadter lamentava che ad ogni nuova conquista delle tecnologie di automazione cognitiva, il progresso si convertiva per gli avversari dell’Intelligenza Artificiale nell’occasione per squalificarne i risultati dal dominio della vera intelligenza. I tempi sono cambiati, e le nuove previsioni si fondano su un’applicazione molto disinvolta della Legge di Moore con cui si assume che le prestazioni dei processori raddoppino ogni 18 mesi circa. La densità di dati allocati per unità di memoria nei computer è cresciuta ad un ritmo del 60% all’anno tra il 1960 e il 2003, mentre il grado di potenziamento dei semiconduttori si è aggirato intorno al 40% ogni 12 mesi per oltre 50 anni. La Legge di Moore è una valutazione empirica dell’evoluzione produttiva e della pressione competitiva nel mercato dei chip; ma oltre mezzo secolo di conferme sembrano a molti più che sufficienti per rompere le precauzioni richieste dalla comunità scientifica, e cominciare a eseguire proiezioni sul futuro dei prossimi dieci anni. Siamo nell’epoca dei Big Data, e come spiega Chris Anderson, se non sono gli uomini a elaborare ipotesi senza indugi provvederanno le macchine a supplirli (o a seppellirli) in questo ruolo.
Così alla Harvard Business Review, Davidow e Malone passano a schizzare un paio di conti: assumiamo che il quoziente di intelligenza delle macchine attuali corrisponda alla media del QI di un cittadino americano, stabile sui 100 punti; proiettiamo un percorso di crescita (poco) prudente da parte dei computer, supponendo che il loro potenziale lieviti di un fattore moltiplicativo di 1,5 all’anno. In un balzo arriviamo alla conclusione che tra dieci anni i robot vanteranno prestazioni cognitive superiori al 90% della popolazione USA, e potranno avanzare una pretesa legittima su circa 50 milioni di posti di lavoro oggi affidati a persone meno promettenti dei loro futuri supplenti al silicio.
Più di un anno fa, l’Università di Oxford si era già impegnata a dimostrare che oltre il 47% dei posti di lavoro attuali potrebbe essere rimpiazzata da dispositivi automatici nei prossimi due decenni. La minaccia è meno generica rispetto a quella formulata dagli esperti di Harvard, perché non vengono prese di mira le competenze intellettuali ma gli incarichi professionali, con la compilazione di una scala di esposizione che vede più a rischio le categorie appartenenti ai settori dei trasporti, della logistica e delle consegne, seguite da quelle della produzione manifatturiera, da quelle delle installazioni e delle riparazioni, da quelle delle costruzioni ed estrazioni minerarie, poi da quelle dell’allevamento e della caccia, infine da quelle di segreteria e di supporto amministrativo. Possono dormire sonni più tranquilli gli addetti alle vendite e ai servizi, i medici e i farmacisti, gli avvocati, gli insegnanti, gli ingegneri, gli scienziati, gli esperti di computer, e (blindatissimi) i manager e gli operatori finanziari. L’elenco va maneggiato con cautela: calciatori, veline, politici corrotti, mafiosi, non sono contemplati nella lista: l’importazione dei risultati nel nostro paese potrebbe quindi subire alcune oscillazioni significative.
Sia Boston Consulting, sia Harvard, sia Oxford, si impegnano a trovare testimoni che avvalorino le loro previsioni sui progressi della robotica nel prossimo futuro, finendo per citare sempre gli stessi due casi. Quello più dirompente riguarda la Foxconn cinese, diventata famosa per la sua collaborazione con Apple nell’assemblaggio degli iPhone. Il colosso orientale impiega oggi 1,2 milioni di dipendenti in carne ed ossa, ma nel 2011 ha avviato un processo di automazione delle filiere celebrato con l’installazione di 10 mila robot, battezzati Foxbots. L’inserimento dei dispositivi elettronici avanza di 30 mila unità per anno, ma al meeting annuale degli azionisti a Taipei, il 26 giugno 2013, il CEO Terry Gou ha annunciato che l’obiettivo aziendale è quello di arrivare nei prossimi anni a contare su un milione di robot operai, mentre il personale umano si serrerà nei ranghi dei tecnici e degli ingegneri. Insomma, si salverà il solito 10% arroccato in quote di QI sopra quelle conquistate dall’intelligenza artificiale.
La Foxconn ha investito per tre anni nello sviluppo di robot, il cui costo unitario oggi è di 20 mila dollari. Sempre applicando con disinvoltura la Legge di Moore, Davidow e Malone calcolano che a breve il costo di ogni dispositivo diventerà competitivo rispetto all’investimento richiesto dai dipendenti biologici, anche nei paesi più poveri. Secondo le osservazioni conclusive del lavoro quasi quinquennale di Boston Consulting sul futuro dell’industria manifatturiera, è possibile calcolare il punto di svolta in cui le imprese accolgono l’idea di rimpiazzare il personale umano con quello digitale: la soglia critica viene attraversata quando i costi di adozione e gestione dei robot comportano uno sconto del 15% rispetto all’investimento per l’impiego di operai in carne ed ossa.
Il secondo esempio è Amazon, che nel 2012 ha versato 775 milioni di dollari in contanti per rilevare Kiva System e la sua linea di produzione di robot per la gestione dei magazzini. Tutti i problemi di trasporto e stoccaggio sono stati risolti applicando adesivi con codici a barre sui pavimenti; a tutto il resto pensano le macchine, che sono infallibili nelle collocazioni e nei prelievi, non si stancano, non temono la noia, non amano pause caffè e sigaretta.
Le fabbriche di automobili sono oggi il settore che ricorre in modo più aggressivo all’automazione: Boston Consulting calcola che circa il 40% del lavoro di produzione sia già affidato ai robot, e che il loro costo orario di lavoro si aggiri intorno agli 8 dollari, contro i 25 degli operai umani. Se questo non bastasse, la previsione è che nei prossimi dieci anni l’investimento richiesto dai dispositivi automatici scenderà di un ulteriore 22%.
Nessuno degli esempi elencati sembra però cogliere nel segno, dal momento che appartengono tutti, anche se a vario titolo, all’ambito della robotica muscolare. Di intelligenza se ne vede ancora poca, soprattutto se si considera la tabella di evoluzione immaginata da Boston Consulting.
Le nuove applicazioni di intelligenza artificiale «di servizio» invadono aree di qualità crescente, che richiedono capacità decisionali nel software sia per la localizzazione e l’identificazione degli oggetti (in un ecosistema esterno detto «quasi-strutturato» o addirittura «non-struttutrato»), sia nell’assunzione di decisioni intorno al loro stato con un grado elevato di controllo del feedback da parte del contesto (in una situazione cognitiva che «applica logiche», sebbene non sia ancora in grado di «sviluppare logiche» in modo creativo). La nuova generazione di automi non si limita a ripetere gesti predefiniti su bersagli pre-localizzati, come accadeva con i robot delle catene di montaggio: è dotata di sensori per eseguire una lettura autosufficiente dell’ambiente, ricorre alla consultazione di Big Data per la sua comprensione e per la selezione delle decisioni operative che devono essere assunte. Quello che manca ancora a questa nuova legione di macchine sono proprio gli aspetti creativi dell’intelligenza, che si manifestano nella capacità di inventare soluzioni inedite ai problemi imposti dal contesto esterno. Insomma, con disappunto di Hofstadter, l’intelligenza artificiale non è ancora intelligente.
Questione di tempo, assicurano tutti i soggetti coinvolti nel dibattito. Il punto di vista che li accomuna è quello proposto dai guru dell’evoluzione tecnologica come Brian Arthur e Kevin Kelly: lo sviluppo delle macchine è un processo ineluttabile e a senso unico, descritto in termini che fanno sembrare Hegel un cauto empirista. Kelly conia addirittura un vocabolo ad hoc, il Technium, per evocare la tecnologia come il soggetto organico di una storia che procede in modo obbligato verso un destino su cui né gli individui, né le società, né le nazioni, possono intervenire aprendo percorsi alternativi a quelli prestabiliti dalla Provvidenza Digitale; anche Arthur condanna l’ingenuità che vorrebbe scorgere nella tecnica una collezione di dispositivi e di apparati, per dipingerla invece come il protagonista autocosciente di una saga che progetta e implementa ogni nuovo passaggio evolutivo sulla base delle implicazioni di quelli precedenti. Queste tesi alimentano il sospetto che gli americani stiano tentando di legittimare la loro egemonia planetaria, presentando lo strumento della loro supremazia economica e politica come la forma naturale e inevitabile della storia. Kelly asserisce a chiare lettere che non ci si può opporre al corso della tecnologia: il suo sviluppo è inarrestabile, e chi tenta di censurarla si condanna ad una posizione di marginalità antropologica, connotata da miseria, irrilevanza geopolitica – e perché no, anche da un certo intontimento collettivo.
Il futuro disegnato dalla classe dominante americana è chiaro: la sola vita degna di essere vissuta è quella che si esprime nelle professioni intellettualmente più sofisticate, che consistono nella gestione manageriale e ingegneristica dei prossimi sviluppi tecnologici. Il rifiuto di questa prospettiva non è previsto dalla scaletta evolutiva della specie umana: immaginare uno scenario venturo in cui possa essere appassionante e remunerativo conservare i segreti dell’artigianato della sartoria, del legno o del vetro, significa affrontare una condanna all’insensatezza o alla stupidità.
Le implicazioni immediate di questa convinzione non riguardano la prova dei fatti, con cui verificheremo nei prossimi anni se davvero l’intelligenza artificiale sarà in grado di mimare le prestazioni del pensiero creativo – ma le risoluzioni politiche e finanziarie che vengono assunte fin da oggi. Jordan Pearson su Vice esplicita il vincolo bidirezionale che tutti avvertono tra futuro del capitalismo e sviluppo della robotica da lavoro. David Brooks sul New York Times proclama la necessità di modificare sia la strategia di tassazione nazionale, sia quella della gestione dei flussi migratori. La salvezza di una nazione ormai può solo fondarsi sulla sua capacità di non perdere terreno nella corsa imposta dalla Legge di Moore nello sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate per l’esecuzione di operazioni professionali non puramente muscolari. Di conseguenza le risorse finanziarie non possono essere sperperate nel sostegno di coloro che non lavorano – qualunque sia il modo in cui sono classificati, e qualunque sia la ragione del loro stato attuale. Al contempo, le politiche di immigrazione devono trasformarsi in una vera e propria operazione di talent scouting, che attragga tutti e solo coloro che possono contribuire alla creazione di nuovo valore competitivo.
Il PEW Research ha coinvolto 1896 esperti di innovazione tecnologica in un panel di discussione sugli impatti che le future generazioni di robot provocheranno sul mondo del lavoro nei prossimi dieci anni. Il 48% degli interlocutori si è mostrato preoccupato per le conseguenze che l’adozione massiva di dispositivi di intelligenza artificiale produrrà sia sulla classe operaia, sia su molte fasce impiegatizie. Dall’altra parte, il 52% di ottimisti assicura che l’introduzione di tecnologie più sofisticate inaugurerà lo spazio per la creazione di nuove professioni, come è già avvenuto con il successo planetario di Internet. La scomparsa dei processi produttivi tradizionali rappresenta la condizione necessaria per la formazione di un nuovo ambiente di adattamento e per l’invenzione di nuovi percorsi professionali. Gli scettici leggono queste dichiarazioni come una collezione di metafore per nascondere la natura concreta dell’organizzazione sociale del lavoro che ci aspetta: una situazione di precarietà più intensa, se non di disoccupazione endemica; sacche sempre più ampie di lavori alienanti e sottopagati.
Per tutti, il rischio peggiore è costituito dall’inadeguatezza della formazione scolastica alle sfide che ci attendono. I programmi universitari non sono pronti né ad offrire le competenze necessarie per l’interazione con le infrastrutture tecnologiche del futuro, né ad intercettare le prospettive professionali più riparate dal rischio di sostituzione da parte dei robot. In altre parole, persino l’ambiente accademico americano sta preparando una nuova classe di luddisti laureati e talvolta persino portatori sani di un QI superiore a quello delle macchine intelligenti del futuro. Matrix è davvero all’orizzonte.
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