Lavoro
Smartworking: ha salvato l’Italia o è stata una vacanza retribuita?
Il dibattito sullo smartworking, declinazione italiana del lavoro a distanza, è come al solito polarizzato. Da una parte quelli che “i servizi pubblici hanno comunque retto”, dall’altra quelli che “ai dipendenti pubblici è stato garantito lo stipendio senza lavorare”.
Chi ha ragione?
In realtà hanno ragione (e quindi torto) entrambe le fazioni. Vediamo brevemente perché.
Innanzitutto la normativa di riferimento (la Legge n. 81/2017) è una normativa che non riguarda l’organizzazione della pubblica amministrazione, ma è diretta a datori di lavoro pubblici e privati ed ha lo scopo dichiarato di “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” dei lavoratori. Perché sottolineo questo aspetto? Per il semplice motivo che non si tratta di una normativa di sistema, che mirava ad informatizzare i servizi ed i processi della P.A., ma di una legge pensata per agevolare alcune categorie di lavoratori e lavoratrici, in particolar modo quelli che hanno esigenze di cura dei figli e di parenti con disabilità o quelli afflitti essi stessi da disabilità o necessitanti di cure prolungate.
Lo smartworking, dunque, almeno nella sua definizione legislativa, non è una modalità di fornitura dei servizi erogati dalla P.A., ma uno dei modi (eccezionali) in cui è possibile per il lavoratore pubblico e privato fornire la propria prestazione lavorativa, a condizione che sussistano determinate condizioni e per un periodo limitato di tempo.
L’emergenza Covid, invece, ne ha imposto l’utilizzo indiscriminato all’intera platea dei dipendenti pubblici italiani, senza distinzione di mansioni ed ente di appartenenza, con l’unica salvezza dell’erogazione dei servizi essenziali (sulla cui enucleazione torneremo tra poco) che necessitavano della presenza fisica per essere erogati.
Se partiamo da questa constatazione, possiamo renderci immediatamente conto di un fatto: tutti i lavoratori pubblici che svolgevano mansioni manuali in servizi non essenziali sono, di fatto, stati pagati senza dover fornire alcuna prestazione lavorativa. Non sono pochi. Mi riferisco ad autisti, uscieri, addetti alla guardiania, giardinieri, addetti alla manutenzione, operai, etc.
A tutti coloro le amministrazioni pubbliche si sono limitate, neanche sempre, a chiedere di seguire qualche corso di formazione, rigorosamente online. Parliamo, nella migliore delle ipotesi, di qualche ora passata davanti al pc o allo smartphone a fronte di un regime straordinario iniziato il 9 marzo e parzialmente tuttora in vigore.
Dicevamo dei servizi essenziali. Fatto salvo il settore della Sanità, il quale ovviamente e purtroppo ha dovuto reggere l’urto della pandemia, gli altri servizi che normalmente vengono definiti essenziali hanno subito un brusco ridimensionamento.
La scuola ha funzionato a macchia di leopardo. Tutti noi hanno nella propria cerchia di conoscenze e familiari, esempi di ragazzi che sono stati messi in grado di proseguire l’anno scolastico in maniera soddisfacente e di ragazzi, invece, ai quali gli istituti scolastici non sono stati in grado di fornire alcun servizio che non fosse l’assegno inviato via whatsapp o posta elettronica. La scuola dell’infanzia, in particolare, per evidenti ragioni legate all’età degli alunni, ha pressoché interrotto il proprio servizio. L’università, viceversa, ha garantito in maniera molto più uniforme il proseguimento delle attività.
I trasporti pubblici hanno funzionato a scartamento ridotto, almeno per quanto riguarda il settore passeggeri.
Gli enti locali hanno sospeso alcune attività (si pensi a tutti gli adempimenti legati alla scadenza dei documenti di riconoscimento – prorogati di ufficio – , ai servizi culturali, all’attività fieristica, alla manutenzione di strade e infrastrutture, etc.).
Ma il caso più eclatante è quello della giustizia che, di fatto, ha quasi cessato di essere esercitata, con una interruzione massiva delle prestazioni ed il rinvio delle udienze. Ad un sistema che è già caratterizzato da tempi biblici, questi mesi di interruzione hanno probabilmente assestato il colpo di grazia. Ce ne accorgeremo quando arriveranno le prossime condanne all’Italia per denegata giustizia.
Ci sono, poi, i dipendenti pubblici che il loro lavoro lo hanno svolto, quelli che hanno consentito al sistema di reggere. In una organizzazione, per dirla alla Cassese, pre-tayloristica, garantire non solo i servizi che vengono erogati normalmente (pensiamo alle pensioni, all’anagrafe, alle forze armate, ai servizi di soccorso), ma far fronte alla incredibile mole di prestazioni straordinarie dovute al Covid (sussidi di ogni tipo, cassa integrazione, bonus vari, etc.) senza che un solo ingranaggio della P.A. fosse cambiato, è stato uno sforzo titanico.
Nonostante capisca il disagio di coloro che sono ancora in attesa dell’accredito della Cassa integrazione, sono sinceramente stupefatto della sostanziale tenuta della P.A. che, nella stragrande maggioranza dei casi, lavora ancora pratiche cartacee, con piattaforme informatiche obsolete e non integrate e, soprattutto, non pensate per sostituire l’attività di ufficio.
Dietro questa sostanziale tenuta, ci sono lavoratrici e lavoratori che hanno dovuto letteralmente reinventare i processi di back e front office, procedendo tra scansioni, whatsapp, email, suite di Microsoft e di Google in maniera del tutto autonoma ed improvvisata.
La buona notizia è che, non senza disagi e disservizi, il sistema Italia ha sostanzialmente retto.
La cattiva notizia è che in questi mesi di emergenza, caratterizzati da una iper produzione normativa a tutti i livelli istituzionali, l’organizzazione della P.A. è stata del tutto ignorata. Ad emergenza finita, i nostri uffici, le nostre segreterie, i nostri tribunali riprenderanno a funzionare esattamente come prima, con il rammarico di aver perso una grande occasione per riformare, migliorare e modernizzare lo Stato.
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