Lavoro
SALARI – L’ultimo rapporto di Job Pricing e i dogmi dei liberali
L’ultimo rapporto sui salari italiani, a cura di Osservatorio Job Pricing, conferma l’incapacità della sola contrattazione collettiva di difendere il potere d’acquisto dei salari e alcuni dati indicano che la diagnosi dei propagandisti economici liberali – in Italia il problema sono produttività e cuneo fiscale – è fuorviante.
L’ultimo rapporto dell’Osservatorio Job Pricing, JP Salary Outlook 2002. L’analisi delle retribuzioni italiane, redatto utilizzando i dati di 550.000 profili retributivi relativi al periodo 2014-2021, pur provenendo da una società di consulenza privata, contiene elementi che contribuiscono a smentire alcuni dei più ricorrenti luoghi comuni utilizzati dai liberali nel dibattito sui salari. In un periodo in cui, grazie al varo definitivo della direttiva europea, si torna a parlare di salario minimo e risuonano voci contrarie persino nel sindacato si tratta, dunque, di una lettura che evidenzia perché in Italia ne avremmo bisogno più che altrove.
“Le retribuzioni medie degli italiani non sono tra le più alte dei paesi del gruppo OCSE”. Tradotto in cifre l’eufemistico incipit del Rapporto significa che l’Italia, con un salario medio annuo di 37.769 dollari PPA (a Parità di Potere d’Acquisto), è al 25esimo posto su 36 nella classifica, molto più vicina all’ultima posizione, occupata dal Messico (16.230 dollari) che alla prima in classifica, gli USA (69.392). Nell’Eurozona siamo all’11esimo posto su 17, dietro a Belgio, Germania, Austria, Francia e Spagna.
FIGURA 1: salari medi annui OCSE in dollari (a Parità di Potere d’Acquisto, 2020)
Quest’ultima collocazione è frutto di una dinamica salariale che, come è noto, vede i nostri salari medi arretrare, unico caso in Europa, tra il 1990 e il 2020 (-2,9%), una tendenza di lungo periodo a cui dal 2020 si somma l’impatto negativo del Covid-19, che tra il 2019 e il 2020 ha provocato il contraccolpo più violento (-5,9%) da confrontarsi col -3,3% della Francia, col -2,9% della Spagna e col -0,5% della Germania.
FIGURA 2: salari medi annui, variazione % 2019-2020 (in dollari PPA)
Si tratta di retribuzioni lorde, a cui naturalmente vanno sottratte imposte e prestazioni sociali, sottrazione che in Italia, almeno secondo la vulgata, sarebbe particolarmente esosa, tesi che alimenta le richieste di aziende e sindacati di ridurre il cosiddetto “cuneo fiscale”. In realtà se osserviamo il grafico in FIGURA 3, che illustra la differenza tra lordo e netto e la suddivide in imposte a carico del lavoratore e contributi previdenziali a carico, rispettivamente, del lavoratore e dell’azienda, vedremo che l’Italia si colloca nella fascia medio-alta di cuneo fiscale (tra il 40% e il 50% del costo dl lavoro complessivo) ma fa registrare valori inferiori a quelli di Francia, Germania e Austria. Per quanto riguarda le imposte a carico del lavoratore l’Italia è al nono posto su 27 paesi, mentre si colloca in una fascia intermedia in termini di prelievo complessivo (fisco+previdenza) sempre a carico del lavoratore e, infine, in una fascia medio-alta di prelievo a carico delle aziende, ma a un livello comunque inferiore rispetto alla Francia e praticamente identico alla Spagna (mentre è più alto rispetto alla Germania).
FIGURA 3: cuneo fiscale scorporato (% su costo del lavoro, 2020)
Oltre che sottolineando l’eccessivo cuneo fiscale i propagandisti liberali spiegano i bassi salari che caratterizzano il mercato del lavoro italiano evocando la scarsa produttività della nostra economia, obiezione spesso tesa a scaricare le colpe di questa situazione sui lavoratori troppo poco “flessibili” e “attaccati ai privilegi”. I ricercatori di Job Pricing, tuttavia, sottolineano che la bassa produttività è legata piuttosto alla dimensione d’impresa ridotta e al basso livello di innovazione tecnologica tipici del capitalismo italiano, fattori che certo non possono essere ascritti alla volontà dei lavoratori. Inoltre, se osserviamo i grafici in FIGURA 4 e 5, che illustrano l’andamento della produttività (calcolata come PIL su ora lavorata) e dei salari in Spagna, Francia, Germania, Italia e Regno Unito, noteremo che se l’Italia è innegabilmente il paese in cui la produttività dal 2010 al 2020 cresce di meno (neanche il 5%), in valore assoluto essa ha valori analoghi a quelli di Francia e Regno Unito, leggermente inferiori alla produttività tedesca e decisamente al di sotto di quella spagnola, quella che è cresciuta di più. L’altro aspetto che vale la pena di sottolineare è che l’Italia, insieme alla Gran Bretagna, è il paese in cui la forbice tra produttività e salari è più ampia e che qui da noi in corrispondenza della pandemia assistiamo a un’impennata della produttività e a una caduta dei salari. La Germania è l’unico paese in cui la curva salariale un decennio fa ha scavalcato quella della produttività continuando ad allontanarsene (con una flessione nei dintorni della pandemia).
FIGURA 4: produttività (PIL per ora lavorata) 2010-2020 (base=2010) Spagna e Francia
FIGURA 5: produttività 2010-2020 (come sopra) Italia, Germania, Regno Unito
Infine per analizzare in modo congruo il livello dei salari, oltre che le trattenute alla fonte (imposte+contributi) è necessario detrarre l’inflazione, insomma distinguere tra salari nominali e salari reali. Nel 2021, ad esempio, l’inflazione si è attestata all’1,9%. “Questo vuol dire – scrivono gli analisti dell’Osservatorio – che il valore del denaro è diminuito per tutti e non solo ci hanno perso i lavoratori i cui salari sono diminuiti, ma anche coloro che li hanno visti aumentare di una percentuale minore dell’inflazione”. La FIGURA 6 mostra che sia nel breve che nel lungo periodo in Italia è stato l’intero mondo del lavoro dipendente (scorporato in dirigenti, quadri, impiegati e operai) a registrare una diminuzione del salario reale. La Retribuzione Globale Annua (quella calcolata tenendo conto anche delle componenti variabili del salario) media, infatti, nei periodi analizzati resta ben al di sotto dell’inflazione.
FIGURA 6: Variazione media RGA e inflazione % nei periodi 2020-2021 e 2015-2021
Nel complesso questi dati dovrebbero spingere il sindacato a prendere atto che in questi anni la contrattazione collettiva non è stata in grado di difendere il potere d’acquisto dei salari. Si tratta di problema che non può certo essere ascritto esclusivamente ai cosiddetti contratti pirata né, dunque, essere scongiurato attraverso un semplice intervento legislativo sulla rappresentanza e l’introduzione di una norma sull’efficacia erga omnes dei contratti nazionali di lavoro. Circa un quarto dei lavoratori italiani guadagna meno di 9 euro lordi l’ora (paga tabellare) e la maggior parte è inquadrata nella contrattazione collettiva siglata dalle organizzazioni maggiormente rappresentative. Tutti questi dati confermano per l’ennesima volta che istituire un salario minimo intercategoriale per legge come “pavimento” della contrattazione (e non come alternativa a quest’ultima) è l’unico modo intervenire in modo concreto, esigibile, rapido e unificante per affrontare un’emergenza che dalla Tunisia alla Gran Bretagna sta costringendo le grandi confederazioni sindacali a scioperare. Mentre le presunte ricette alternative dei propagandisti economici liberali – ridurre il cuneo fiscale, aumentare la produttività – continuano a risuonare da anni come slogan privi di qualunque riscontro pratico.
Articolo tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 24 giugno 2022.
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