Lavoro
S. Fana: ‘Salari bassi? Alimentano l’impresa parassitaria’
Intervista a Simone Fana, coautore di ‘Basta salari da fame’ (Laterza, in uscita)
A novembre esce per i tipi di Laterza Basta salari da fame!, di Simone e Marta Fana. Fratello e sorella, entrambi redattori di Jacobin Italia, la rivista presente da circa un anno nel nostro paese e legata all’autorevole testata della sinistra americana, questa volta sono coautori di un nuovo saggio che arriva due anni dopo Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza, 2017), scritto dalla sola Marta. Con Simone Fana proseguiamo un discorso iniziato con Johannes Geyer, del DIW di Berlino, sulle conseguenze sociali ma anche economiche dei bassi salari e su come contrastare il fenomeno (vedi l’intervista qui su Gli Stati Generali). Ritornano i temi del salario minimo e della previdenza, che stavolta si arricchiscono di alcune riflessioni sulla manovra finanziaria del Governo Conte bis.
Cominciamo dal tema del salario in Italia e in Europa. Quanto pesano i working poors?
Intanto diciamo che il fenomeno dei working poors si è accentuato con la crisi economica del 2007-2008, ma in realtà parte dalla metà degli anni ’90 ed è un fenomeno internazionale che tocca le maggiori economie europee – penso a paesi come Germania, Italia e Francia – e in generale i paesi a capitalismo avanzato. In Germania in particolare, con le riforme di Gerhard Schröder negli anni ’90, la copertura dei contratti nazionali di lavoro è scesa dal 70%-80% al 53% e la deregulation del mercato del lavoro, in particolare la diffusione dei Mini-Job, ha spinto milioni di lavoratori a vivere in condizioni di sotto-occupazione. Per quanto riguarda l’Italia, invece, sotto la soglia di povertà di 780 euro al mese ci sono 3 milioni di lavoratori. Un problema che, aldilà delle immediate e ovvie ricadute in termini sociali, incide anche sulla forza complessiva della classe lavoratrice. Con 3 milioni di lavoratori poveri, infatti, è più complicato esercitare quella forza per ottenere condizioni migliori, perché le disuguaglianze naturalmente tendono a dividere.
Un problema che ha ricadute anche in termini economici…
Sì perché se i salari sono bassi hai una crescita economica che, in carenza di domanda interna, si fonda sulle esportazioni, dunque, a sua volta, sulla competizione sui prezzi e questo rende la nostra economia particolarmente esposta alle oscillazioni della domanda estera e alle dinamiche conflittuali dei mercati che oggi vengono alla ribalta.
L’idea che ci siamo fatti è che però in Germania la compressione salariale sia avvenuta in modo più selettivo, cioè che la tradizionale ‘aristocrazia operaia’ tedesca – metalmeccanici, dipendenti pubblici, ferrovieri – sia stata relativamente risparmiata, ma accanto a essa si è creato un cospicuo serbatoio di forza-lavoro sottopagata, quello a cui accennavi all’inizio.
E’ vero. In Germania c’è stata una forte polarizzazione del mercato del lavoro, che ha creato ampie fasce di sotto-occupazione. Oggi hai 4-5 milioni di persone che fanno i cosiddetti Mini-Job, mentre la forza-lavoro industriale, ad esempio nel settore automotive, è stata tutelata perché lavora in industrie che esportano e creano valore aggiunto. Viene tutelata in termini di salario, ma anche con altre modalità, ad esempio con la riduzione dell’orario di lavoro strappata dall’IG Metall nel rinnovo contrattuale dei metalmeccanici. Il lavoro povero in qualche misura rappresenta un’altra faccia di questa condizione di maggior favore e contribuisce ad alimentarla. Come dicevo, infatti, la riduzione della spesa pubblica e la compressione della domanda interna sono funzionali a creare e distribuire valore aggiunto attraverso le esportazioni e a goderne, in parte, è anche chi lavora nei settori che beneficiano di questa situazione.
E in Italia?
In Italia il vero problema, invece, è che sono i salari medi a essere bassi. Certo, anche da noi ci sono settori caratterizzati da paghe molto basse, penso alla logistica o alla ristorazione, ma il problema è più generale. Se confronti i nostri dati con quelli degli altri paesi ti rendi conto che anche i dipendenti pubblici guadagnano troppo poco ed è un fatto che ha ragioni concrete: la bassa produttività, il blocco del turn-over, il dilagare delle esternalizzazioni. Le esternalizzazioni, in particolare, fanno sì che una quota rilevante del lavoro pubblico (e non solo) venga affidata a cooperative e associazioni che fanno profitti riducendo il costo del lavoro. Il risultato complessivo è che in Italia i salari medi sono troppo vicini ai salari minimi. E’ un sintomo che la questione salariale non riguarda una piccola quota di lavoratori, bensì li colpisce tutti.
Negli ultimi anni sta prendendo piede un dibattito sull’impatto dell’intelligenza artificiale e in generale delle nuove tecnologie sul mondo del lavoro e la tesi prevalente pare sia che andiamo verso una disoccupazione di massa. In realtà molti studi dicono che più che distruggere occupazione la tecnologia tenderà a riorganizzare il mercato del lavoro, creando una polarizzazione tra una piccolissima quantità di lavoratori molto qualificati e in grado di rivendicare salari migliori e una stragrande maggioranza di forza-lavoro poco qualificata e sottopagata.
Per fortuna oggi molti studi ci consentono di uscire dalla psicosi per cui la tecnologia avrebbe come effetto immediato la sostituzione di lavoro vivo col lavoro delle macchine. In realtà l’introduzione di nuove tecnologie, come dicevi, tende piuttosto a rimodulare il mercato del lavoro, cioè ad accrescere la fascia dei lavoratori sotto-occupati e che svolgono mansioni ripetitive. In questo senso la tecnologia, più che come forza distruttrice di occupazione, agisce come strumento per il controllo dei tempi e per la riduzione del sapere incorporato nella produzione. La macchina ‘estrae autonomia’ e la incorpora nelle nuove tecnologie, che vengono impiegate con effetti pesanti per controllare l’organizzazione del lavoro. Penso, ad esempio, alla cosiddetta economia delle piattaforme, di cui i rider rappresentano solo la punta dell’iceberg. L’effetto sarà quello di una polverizzazione del mercato del lavoro, in cui una piccola parte dei lavoratori avrà salari dignitosi, mentre il resto subirà gli effetti deleteri di questa riorganizzazione.
Secondo te il fatto che invece si insista sulla tecnologia che distrugge posti di lavoro è frutto di un problema analitico o si tratta di una tesi interessata?
Dietro questa tesi c’è certamente un impianto ideologico, fondato in particolare sull’idea che la tecnologia sia uno strumento neutrale. In realtà sappiamo che la tecnologia apre un terreno conflittuale, perché il punto dirimente non è la tecnologia in sé, ma chi la controlla. Il controllo delle leve tecnologiche oggi è orientato ad aumentare i profitti e a disciplinare la forza-lavoro. Insomma di per sé l’innovazione pone un interrogativo, cioè se utilizzare i vantaggi che essa mette a disposizione per liberare tempo di lavoro e di vita oppure per aggredire i salari e aumentare i profitti. In questo senso l’innovazione tecnologica può essere un’occasione, se assunta in un quadro conflittuale, come oggetto di negoziato tra parti con interessi contrapposti. Marx diceva che nell’economia capitalistica il tempo di lavoro è tutto, il tempo di vita è nulla.
Veniamo all’Italia. In questo quadro il dibattito politico oscilla tra due soluzioni: il cuneo fiscale, cioè aumentare i salari a spese dello Stato e quindi degli stessi lavoratori e il salario minimo, cioè aumentare i salari a spese delle imprese, idea che suscita la reazione non solo delle imprese, ma dello stesso sindacato. Cosa ne pensi?
E’ vero. La riduzione del cuneo non è una manovra giusta, perché è una riduzione delle tasse sul lavoro dipendente a carico della fiscalità generale, quindi dei lavoratori stessi. Significa danneggiare le prestazioni del welfare – scuola, sanità, università – tutti capitoli rispetto a cui nella manovra in discussione non mi pare ci sia nulla. Ad esempio i nuovi concorsi per assumere dipendenti pubblici non si vedono. Il rischio dunque è che il margine salariale conquistato da alcuni con questo provvedimento venga pagato dal resto della classe lavoratrice. Perché l’altro aspetto poco convincente del cuneo fiscale è che dalle anticipazioni che abbiamo letto a oggi pare che la misura riguarderà una parte limitata dei lavoratori, quelli nella fascia dai 26.000 fino ai 35.000 euro l’anno lordi, che risparmierebbero circa 40 euro al mese. Al di sopra nulla, come del resto per i lavoratori che guadagnano talmente poco che le tasse non possono pagarle.
Passiamo al salario minimo…
Il salario minimo, invece, ha l’ambizione di restituire un elemento di unità e di riconoscimento comune a tutti lavoratori, cioè che non si deve lavorare sotto una certa cifra l’ora. Si chiama conflitto redistributivo e sembra sia un argomento che non interessa più a nessuno. Poi, aldilà degli aspetti di principio, ci sono quelli quantitativi. Con la proposta del salario minimo a 9 euro l’ora, quella che avevano fatto i cinque stelle, si calcola che ci sarebbe una redistribuzione di ricchezza dai profitti verso i salari di circa 7 miliardi, col cuneo fiscale di 3 miliardi soltanto. Insomma, in realtà ci troviamo di fronte a una manovra leggera, che inciderà pochissimo sulle fasce a basso reddito e avrà effetti risibili sulla domanda aggregata. Per quanto riguarda poi la posizione dei sindacati credo che non solo non ci sia una contraddizione tra salario minimo e contrattazione, come dimostrano la Germania, la Francia e i principali paesi europei, ma che in realtà siano due strumenti che possono convivere ed essere utilizzati in modo complementare per affrontare la questione salariale e ridurre le disuguaglianze, invece di cercare scorciatoie.
Un ricercatore del DIW di Berlino che abbiamo intervistato la scorsa settimana ci ha detto che se serve il salario minimo vuol dire che il sindacato non è in grado di tutelare le fasce di lavoro a basso reddito. Nella società moderna vuol dire donne, giovani, immigrati. Secondo te c’è spazio per una campagna nazionale sul salario minimo che punti a riaggregare il mondo del lavoro coinvolgendo anche queste fasce sociali?
Io penso che sia necessaria una campagna sulla questione salariale che comprenda nella sua articolazione interna anche il tema del salario minimo. Il salario minimo è la rivendicazione che può servire a unire il mondo del lavoro, ma dev’essere inquadrato in una visione più ampia. Sono convinto che un altro pilastro di questa campagna sul salario sia la necessità di un grande piano di assunzioni nel settore pubblico. L’Italia ha 2 milioni di dipendenti pubblici meno di quelli che servirebbero a garantire gli standard adeguati per poter soddisfare i bisogni primari di una società come la nostra. Lo vedi, ad esempio, nel confronto con gli altri grandi paesi europei. Con due milioni di dipendenti pubblici in più, inoltre, ridurresti il fenomeno degli appalti e aumenteresti anche la domanda aggregata.
Ci sembra che a favore dell’introduzione del salario minimo deponga anche un’altra ragione e cioè che significherebbe ridurre il ricorso agli appalti e alle gare al ribasso e più in generale arginare il fenomeno dell’ipertrofia di quella piccola impresa che, come dicevi tu prima, vive di tagli al costo del lavoro. Se un personaggio come Fabrizio Barca si dice favorevole al salario minimo a 10 euro vuol dire che c’è un settore di grande impresa che non vedrebbe male un segnale in questa direzione.
E’ vero. A questo aggiungo che il salario minimo significa dire alle aziende che non possono più competere sul lavoro, ma sugli investimenti e sulla qualità. La competizione di costo ha fatto sì che l’Italia si ritrovi con un settore industriale frammentato, esportazioni di contenuto tecnologico medio-basso e una massa di imprese che dipendono dagli incentivi statali e non sono abituate a investire, perché tanto godono di un costo del lavoro così basso che permette loro di farne a meno. Non tutte le aziende sono così, ma è vero che in Italia c’è una quota di impresa parassitaria che negli ultimi anni è aumentata, perché in qualche misura è stata incentivata. E questo, ovviamente, ha delle implicazioni sulla crescita e sulla produttività. In realtà noi dovremmo rovesciare la logica comune: è con salari adeguati che si stimola la produttività e non, viceversa, tagliando il costo del lavoro con la scusa che la produttività è troppo bassa.
Salari bassi, pensioni povere. L’intervista al ricercatore del DIW che citavamo trae spunto da uno studio sul rischio povertà in età avanzata in Germania. In Italia ci sono studi analoghi?
Ci sono degli studi fatti da alcuni accademici, ad esempio quelli di Michele Raitano, che ha anche proposto una pensione di garanzia per le giovani generazioni. Perché il rischio è quello che dicevi tu: salari bassi, prestazioni discontinue ed età pensionabile alta significano che oggi hai dei lavoratori poveri e domani avrai dei pensionati poveri. La pensione di garanzia è una misura che può essere utile per alleviare un problema di povertà e disuguaglianza. Ma non mi pare che questo questo tema sia presente nel dibattito politico. Oggi si dice che bisogna abolire quota 100 e si evoca una riforma strutturale senza dire in che cosa consisterebbe. La verità è che qualunque riforma strutturale della previdenza non può che partire dai salari. Misure come la pensione di garanzia possono servire a mettere una pezza al problema della discontinuità reddituale delle giovani generazioni, ma la questione va risolta alla radice intervenendo sul salario e non solo sul salario diretto, ma anche su quello indiretto, cioè sul welfare. Senza l’universalità del welfare pubblico il potere d’acquisto dei salari è destinato a ridursi.
Tra poche settimane esce un libro sulla questione salariale scritto a quattro mani con tua sorella Marta. Vuoi darci qualche anticipazione? C’è un calendario delle presentazioni?
Il libro si intitola Basta salari da fame! ed esce il 7 novembre per la casa editrice Laterza. E’ un saggio che cerca di collocare il tema del salario in una prospettiva storica e su un piano internazionale. Nel volume cerchiamo di spiegare, ad esempio, come siamo arrivati a questa situazione, attraverso quali passaggi e che fino a quando c’erano dei meccanismi di indicizzazione come la scala mobile le disuguaglianze sociali erano inferiori e il rapporto tra salari e profitti era più favorevole ai primi. Per quanto riguarda l’oggi abbiamo cercato di affrontare il problema del salario in Italia sullo sfondo dell’Europa e del mondo, perché di salario si parla anche in altri paesi e in altri paesi per il salario si lotta, pensa soltanto a quanto sta accadendo negli USA. Per quanto riguarda le presentazioni a breve ci sarà una pagina Facebook del libro, dove si potrà seguire il calendario delle presentazioni in giro per l’Italia. Al momento non posso fare anticipazioni, perché stiamo mettendo a punto le prime iniziative proprio in questi giorni. Abbiamo ricevuto tantissime richieste, ma tramite la pagina Facebook sarà possibile chiedere di organizzare presentazioni anche in località non ancora incluse nella lista delle iniziative.
L’intervista è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 18 ottobre.
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