Lavoro

Roberto Ciccarelli: Non pensare di essere qualcuno quando scrivi

1 Giugno 2024

Roberto Ciccarelli (Bari, 1973). Filosofo e giornalista, scrive per «il manifesto». Ha pubblicato tra l’altro Potenza e beatitudine (Carocci 2003), Immanenza (il Mulino 2009), Il Quinto Stato (con Giuseppe Allegri, Ponte alle Grazie, 2013), Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi 2018), Capitale disumano. La vita in alternanza scuola-lavoro (manifestolibri 2018), Vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (DeriveApprodi 2022), L’odio dei poveri (Ponte alle Grazie, 2023). In questo testo ci racconta cosa vuol dire oggi fare il giornalista, come ci si arriva (anche per errore) e quale è il senso ultimo dello scrivere e dell’informare.

Sono arrivato al giornalismo per errore. Questo non significa che prima fossi qualcuno. Nell’erranza ho trovato un senso. Erranza è sbagliare, vagare, stare in bilico tra le frontiere. Coltivo la sensazione di essere un impostore. Lo penso per ogni mestiere, per di più uno culturale. Anche perché l’alternativa è quel misto di odioso narcisismo. L’esclusività della firma che ti porta a dire io penso questo.
Il più delle volte quello che pensa un giornalista è indifferente a chi lo ascolta. A prenderli sul serio coloro che svolgono questo mestiere sono pericolosi. O inascoltabili nella fiera delle opinioni stereotipate nel formato del talk show. Il giornalismo, nel modo capitalistico in cui è prodotto, è un miscuglio di arroganza, falsità, nozionismi. C’è tutto un microfascismo dell’opinionismo. L’effetto di una saturazione, o disgusto, che provoca l’informazione televisiva. La quasi totale indifferenza per la carta stampata. Effetto del crollo del regime di verosimiglianza di quello che si scrive. È una svolta paradigmatica che ancora è confusa con l’idea di mancanza di autorevolezza.

C’è tutto un pasolinismo nel giornalismo in Italia senza però il senso del tragico, personalmente inteso e vissuto, caratteristica del Pasolini originale. Il pasolinismo è una forma di populismo che porta all’Io-crazia: IO dico la verità al potere. Che risponde: non me ne importa nulla. La stupidità e la bassezza della rappresentazione che i giornalisti danno di sé è direttamente proporzionale alla ripulsa che produce un concentrato di qualunquismo, di riflessi automatici, parti uguali decise nell’infotainment quotidiano.

Il giornalista è come minimo all’opposizione. A cominciare dall’opposizione di se stesso. Opporsi all’idea di essere un potere. Pretesa più ridicola del solito. Se un giornalista crede che quello che scrive è la verità, è sulla buona strada per diventare un tiranno. Un tiranno grottesco perché è senza armi. E quando ne ha una, l’arma che pensa di possedere gliel’ha data il suo editore. Il giornalista è nudo, è fragile, è una piuma. Facile dimenticare di essere un errante, di confrontarsi sempre con l’errore, con il regime del falso. A cominciare dalla falsità dell’Io.

È insopportabile, lo capisco. È impensabile per chi ha qualche ambizione, strumenti, circuiti, possedimenti. Vorrei imparare a fare a meno dell’Io. Cioè il contrario del giornalismo. Anzi, il giornalismo è la costante messa in discussione di questo Io. Bisognerebbe imparare a scrivere con gli pseudonimi. Dovremmo invece imparare a ragliare. L’Io del giornalista è l’I-O, l’I-O dell’asino. C’è tutto un divenire asini nel giornalismo. Dovremmo rivendicarlo. Ragliamo insieme.

Se mi chiedi di scrivere qualcosa sul giornalismo, ti rispondo che scrivere è un fare. Sono uno scrivente. Voglio incarnare un participio presente. Essere stato e divenire nella stessa attività dello scrivere e del fare lo scrivente. Se invece inizi a pensare di essere uno del mestiere, inizi a pensare di avere diritto a una proprietà. Della firma, del ruolo, del sapere. È legittimo. C’è bisogno di fare carriera, hai bisogno di aumentare il salario. Magari hai figli. La vita di tutti i giorni. Vuoi cambiarla, lavorando. Vorresti farti cambiare dal lavoro che ti avvelena. Lavorare è bello, necessario, ti può anche uccidere.

Se mi chiedi cosa trovo nel giornalismo, allora ti rispondo che c’è nel fare del giornalismo la fatica del denudarsi da tutto ciò che sei. Un fare faticoso. C’è tutto un peso fisico nello scrivere ogni giorno. E se non lo fai, ti innervosisci. Non sai quante scenate assurde ho fatto, quando ci sono giorni in cui non scrivo. Mi sono vergognato. Ho chiesto scusa. Mi chiedo il perché, a un certo punto, impazzisco. Di solito sono quieto. Tendo a scomparire. Leggo le mie cose. Me ne sto in un cantuccio a scrivere cose che penso nessuno legga. Preferisco stare nell’ombra.

Mi adiro perché scrivere è l’occasione di spogliarsi dall’Io, di fare risuonare nella scrittura il mondo, le voci, le moltitudini di persone che non possono parlare, e che forse mai lo faranno. E che nemmeno mi leggeranno. Parlare della vita offesa. E della speranza di non arrendersi ad essa. Speranza tradita. C’è un’espressione che mi piace: stare sulla notizia. Seguirne il ritmo. Ascoltarla, mettendo l’orecchio a terra. Sentire che avanza, che arriva, se ne va.
Se mi chiedi allora cosa faccio non ti dico che faccio il giornalista. Ti rispondo: scrivo. Senza attributi, senza dire nemmeno cosa. Scrivo. Se è interessante sono contento perchè è stato utile. Non è detto che lo sarà domani. Vivo nell’intervallo tra un non più e un non ancora. Qualcuno un tempo può anche essersi ritrovato senza che io ne sapessi niente. Scrivere è lo spettacolo dell’anonimato. Sapere che qualcuno legge in silenzio. Non ti conosce, tu non conosci lui.
Vivrei in un paradosso: scrivere è divenire nessuno. Nessuno, in francese, si dice Personne. Ma significa anche persona. Non pensare di essere qualcuno quando scrivi. Lo scriverei su un foglietto e lo attaccherei al muro con un’altra serie di frasi. I miei compagni di stanza al giornale riderebbero. Da scriventi ci si capisce. E si ride.

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