Lavoro

Riflessioni giuslavoristiche sulla teoria dei nudge

4 Novembre 2017

Ho appreso della teoria del nudge (la traduzione italiana sarebbe “spinta gentile” o “pungolo”) subito dopo l’attribuzione del Premio Nobel all’economista Richard Thaler, studioso dell’economia comportamentale e psicologica.
Le “spinte gentili” sarebbero quelle misure finalizzate ad influenzare indirettamente la decisione di gruppi e individui per ottenere gli stessi risultati (se non addirittura maggiori) che si avrebbero attraverso la legge che però, come adempimento forzoso, rischia di essere disapplicata.

La teoria del nudge può essere applicata anche alle politiche attive del lavoro?

La scelta del lavoro è sicuramente una scelta economica ma, al tempo stesso, sottoposta a vari condizionamenti psicologici e ambientali. L’affannosa ricerca del posto fisso, del lavoro impiegatizio e subordinato, del lavoro inserito in una organizzazione in pianta stabile spesso è condizionata da retaggi familiari/culturali che si scontrano con la effettiva richiesta del mercato del lavoro che offre, invece, rapporti di lavoro flessibili o autonomi o di durata prestabilita.
Lavori che non devono essere scartati a priori ritenendoli di serie B laddove siano regolarmente retribuiti o presentino prospettive interessanti in un futuro prossimo.

La teoria del nudge quindi potrebbe essere applicata dagli addetti ai centri per l’impiego/agenzie del lavoro per “spingere dolcemente” verso lavori che potrebbero consentire un soddisfacente inserimento/reinserimento di lunga durata di quei lavoratori che poco conoscono il mondo imprenditoriale.

Occorre dire che condizionamenti ci sono anche nella scelta dei percorsi di studio. I giovani possono risultare influenzati da familiari e amici o da mode che si rivelano passeggere o effimere. Si pensi all’affollamento delle aule di giurisprudenza a seguito dei riflettori accesi sulla figura di Antonio Di Pietro o ai tanti ragazzi attratti da facoltà umanistiche poco appetibili nel mercato che invece necessita di ingegneri, fisici, matematici difficili da reperire.

Se l’alternanza scuola lavoro la vogliamo intendere anche come strumento di politica attiva del lavoro, allora non sarebbe male applicare la teoria del nudge “pungolando” i giovani verso lavori richiesti dal mercato del lavoro. In altre parole, se il mercato del lavoro risulta carente di particolari figure professionali, l’alternanza scuola lavoro può essere una valida occasione per “spingere” i giovani ad appassionarsi al lavoro che c’è, al lavoro che le aziende possono offrire e di cui hanno bisogno e di cui loro non hanno davvero alcuna reale conoscenza.

Leggo che le aziende cosmetiche del distretto di Crema cercano coloristi ed esperti di ricerca e sviluppo qualità. Consentire agli studenti di entrare, ad esempio, in queste aziende (anche solo per affiancare queste figure professionali o osservarle mentre svolgono il lavoro) darebbe un senso molto concreto e utile all’alternanza scuola lavoro, difficilmente contestabile dai giovani diretti interessati. Ovviamente, la figura di un tutor che interceda i fabbisogni del mercato del lavoro e faciliti l’incontro tra lo studente e l’azienda diventa indispensabile.

Non è un caso che i tutor dell’alternanza scuola lavoro siano stati nominati dall’ANPAL e non dal Ministero della Pubblica Istruzione. Attraverso i tutor l’alternanza scuola lavoro potrebbe davvero “spingere” i ragazzi ad appassionarsi a lavori di cui non sanno neppure l’esistenza e che invece il mercato richiede. Il sogno dei millenials è un lavoro retribuito, possibilmente di lunga durata, quale esso sia. Dobbiamo condurli nei luoghi dove, accettati e richiesti, quel sogno potrebbe realizzarsi.

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