Lavoro
Platform work, europeisti e sovranisti contro la Direttiva
Dopo che 13 paesi, tra cui Francia, Italia, Germania e gruppo di Visegrad hanno affossato il testo della presidenza spagnola, giudicato troppo vincolante sulla presunzione di subordinazione dei lavoratori delle piattaforme, lo scioglimento del Parlamento rischia di far naufragare la Direttiva. Ma in Italia non se ne parla.
Il 22 dicembre i rappresentantri dei 27 Stati membri dell’UE in Consiglio europeo hanno respinto il testo provvisorio sostenuto dalla Presidenza spagnola sulla Direttiva sui lavoratori delle piattaforme (PWD), lasciando alla nuova Presidenza belga dell’UE, che si è insediata a inizio anno, il compito di cercare di trovare un accordo prima di aprile, quando il mandato del Parlamento europeo scadrà in vista delle elezioni. Ciò significa che c’è solo un mese di tempo per superare divisioni apparentemente inconciliabili, soprattutto sul punto più contestato dalle imprese: l’introduzione di alcuni indicatori che farebbero scattare la presunzione di lavoro subordinato e dunque la riclassificazione del rapporto di lavoro da autonomo a dipendente.
Uno degli aspetti più interessanti della vicenda è che il dibattito a Bruxelles sta facendo emergere posizionamenti dei singoli Stati che smentiscono la tradizionale narrazione dello dibattito politico in Europa tcome un confronto tra socialisti e conservatori o tra europeisti e sovranisti. Secondo quanto riportato dal sito Euractiv e da Thomas Göransson, segretario internazionale responsabile per gli affari UE del maggiore sindacato svedese, Unionen, attivo diffusore di informazioni sul suo profilo X (l’ex Twitter), soltanto Austria, Danimarca, Lussemburgo, Olanda, Portogallo avrebbero assicurato il proprio sostegno alla proposta spagnola, mentre la Francia guiderebbe un ampio schieramento di opposizione di 12 paesi-membri, di cui farebbero parte anche l’Italia di Giorgia Meloni e l’Ungheria di Viktor Orbàn, seguiti da Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Grecia, Irlanda, Svezia, mentre la Germania avrebbe annunciato l’intenzione di astenersi e altri nove paesi non avrebbero espresso una posizione chiara. Usiamo il condizionale perché non ci sono informazioni ufficiali e le notizia a disposizione sono frammentarie, se non contraddittorie. Il 14 gennaio, nella newsletter del Gig Economy Project, Ben Wray, coordinatore dell’iniziativa, ha scritto invece che il Belgio per questioni formali (esprime la presidenza di turno) e l’Italia si asterrebbero come la Germania.
Le regole dell’UE richiedono che la direttiva per essere approvata debba ottenere il sostegno di almeno il 55% degli Stati-membri e che i membri a favore debbano rappresentare almeno il 65% della popolazione dell’Unione. Al momento, quindi, non ci sono i numeri per far passare il provvedimento e Wray osserva che l’astensione della Germania, forte di oltre 83 milioni di abitanti sui quasi 450 milioni dell’UE a 27, il 18,47% (la Francia è al 15%, l’Italia al 13,7%) è un chiaro messaggio: nessun testo potrà passare senza il voto di Berlino.
Théo Bourgery-Gonse, giornalista di Euractiv, ha twittato una nota della presidenza belga in cui si afferma che l’accordo provvisorio negoziato dalla Spagna “deve servire come base per ulteriori negoziati”, ma individua sei punti chiave da modificare, tra cui, in particolare i criteri/indicatori per far scattare la presunzione legale; le regole circa le deroghe e la discrezionalità dei governi nazionali nell’applicare la presunzione stessa e, dunque, la riclassificazione del rapporto di lavoro; infine altre misure che ruotano anch’esse attorno al principale tema di divisione.
La disputa, aldilà degli aspetti di contenuto, sta facendo emergere anche uno scontro tra le istituzioni europee: l’organismo che sta gestendo la partita in questi mesi, il Consiglio dell’UE, formato da un rappresentante ministeriale per ogni paese, sta mettendo in discussione la direttiva proposta dalla Commissione e avallata dal Parlamento europeo.
Bourgery-Gonse ha anche pubblicato i dettagli di un documento del governo francese, datato 10 gennaio, sul contestato accordo provvisorio negoziato dalla presidenza spagnola. Il documento chiarisce in modo inequivocabile che Macron si aspetta che quel testo venga messo da parte, chiedendo che la nuova presidenza belga “riavvii le discussioni su una versione di lavoro il più possibile vicina all’approccio generale adottato dal Consiglio” nel giugno del 2023, sotto la presidenza svedese, vicina alle posizioni francesi. Per il governo di Parigi la regola dei criteri elencati nel testo – se due su cinque sono verificati scatterebbe la presunzione di subiordinazione – non garantisce “ai veri lavoratori autonomi di rimanere tali” e i criteri specifici proposti nella formulazione spagnola sono troppo ampi ed “è probabile che vengano sistematicamente soddisfatti”, per cui la presunzione “si applicherebbe automaticamente a tutte le piattaforme”.
Altre divergenze riguardano l’obbligo di informare le autorità nazionali su un possibile caso di classificazione errata, che la Francia considera un onere amministrativo, e il punto secondo cui gli organi nazionali competenti (come gli ispettorati del lavoro) sono tenuti a fornire assistenza ai denuncianti e possono far scattare loro stessi la presunzione, che sono considerati non conformi al sistema giudiziario francese.
A metà gennaio la presidenza belga ha presentato una proposta di mediazione che raccoglie alcune delle osservazioni francesi, ma al momento non ci sono ancora indicazioni che gli emendamenti introdotti siano sufficienti a far cambiare idea a Macron, che sembra orientato a far arenare la proposta in attesa delle elezioni europee. Il problema principale è che un indebolimento eccessivo dei criteri previsti dal testo spagnolo rischierebbe di piazzare l’asticella al di sotto di quanto già stabilito da numerose sentenze della magistratura in alcuni importanti paesi-membri come Spagna, Italia e Olanda, che hanno visto riconoscere, in particolare ai ciclofattorini del food delivery, i cosiddetti rider, lo status di lavoratori dipendenti. Nei prossimi giorni ci saranno ulteriori passaggi che dovrebbero chiarire quale sarà l’epilogo della vicenda.
Se la Spagna della ministra del lavoro Yolanda Diaz, che è stata la prima a promulgare una legge a tutela dei lavoratori, nota come legge sui rider, ha scelto di guidare la battaglia europea per la fissazione di alcune regole minime in un settore che rappresenta una propria giungla e la Francia ha deciso, invece, di sostenere a spada tratta le ragioni delle piattaforme, l’Italia e la Germania sembrano intenzionate ad assumere una posizione meno esposta, ma comunque favorevole ai datori di lavoro.
A Bruxelles, tuttavia, la capo-negoziatrice del Parlamento Europeo sulla Direttiva, Elisabetta Gualmini, europarlamentare del PD, sostenitrice di Bonaccini alle primarie e autocandidatasi alla sua successione alla guida dell’Emilia-Romagna, si è schierata coi sindacati. Tuttavia in questi mesi il PD in Italia non ha mai sollevato la questione e si è ben guardata dall’attaccare la Meloni sul posizionamento assunto in Europa. Per il partito di Elly Schlein le elezioni europee sarebbero un’occasione propizia per mettere al centro della propria campagna elettorale un tema delicato che riguarda non solo i rider, ma anche chi lavora per aziende di car pooling come Uber o svolge i cosiddetti microwork davanti al computer di casa propria attraverso piattaforme come Amazon Mechanical Turk. E per il sindacato sarebbe il momento più propizio per chiedere ai partiti “progressisti” di muoversi per evitare di sprecare una delle rare occasioni in cui l’UE chiede di dare, invece che di togliere, qualcosa ai lavoratori.
Il rischio, ma più che un rischio appare lo scenario più probabile, è che finisca come il salario minimo: qualche mese fa veniva agitato come la madre di tutte le battaglie di un’opposizione finalmente unita; oggi appare il grido strozzato di una battaglia annunciata mille volte ma mai combattuta.
Articolo tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 18 gennaio 2024.
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