Lavoro
Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia
Siamo veramente così sicuri che i giovani siano il futuro? E tutti gli altri, i meno giovani, sono dunque esclusi dal futuro?
Colla parola “giovani” non si fa che comprendere collettivamente una categoria di persone distinte dal resto della popolazione unicamente per il dato anagrafico, senz’altra discriminante che l’età.
I “giovani” sono corteggiatissimi come possibili elettori e vezzeggiati un po’ da tutti, in quanto non c’è politico che retoricamente non si prodighi in difesa dei “giovani”, blaterando di possibilità per i “giovani” per poi terminare colla frase magica “futuro per i giovani”. Ognuno a modo proprio, naturalmente. I preti non parlano altro che di giovani, di strutture per i giovani, di scuole per i giovani, per esempio, e forniscono gli oratori e le parrocchie di campi sportivi dove i “giovani” possano trovare diletto. Senza pagare le tasse per le loro strutture “scolastiche”, basta apporre un crocifisso alle pareti. Mente sana in corpo sano. C’è chi pensa a un futuro per i giovani dove il lavoro sarà garantito ossia i soliti demagoghi di turno che promettono, promettono, ma poi, per giustificare le promesse non mantenute, tirano in ballo le difficoltà subentrate come le guerre, le direttive europee, la mancanza di sovranità, eccetera, che legano le mani ai politici che invece vorrebbero fare, fare, fare. Parole, parole, parole.
C’è chi i giovani, invece, li corteggia con catastrofi prossime venture e asseconda i venerdì per il futuro di Greta Thunberg, alimentando ecoansie e generazioni Z sempre più acritiche e ignoranti rispetto a tutto. Tutto che viene affrontato in maniera superficiale (vale anche per i giovani corteggiati dai sovranisti) poiché restando in superficie si evita di affrontare i problemi analiticamente, un po’ perché cogli elementi a disposizione sarebbe assai difficile intellettualmente, un po’ anche perché i problemi sono talmente complessi che l’analisi farebbe perdere in migliaia di variabili il percorso principale degli adepti, i quali invece hanno bisogno di brevi slogan in cui credere. Un po’ perché, soprattutto, anche gli stessi capi non hanno le idee molto chiare sulla complessità.
Ma c’è un fattore comune a tutti questi “giovani”, non è esclusivamente colpa loro. È un’alfabetizzazione sempre più scadente, una confidenza col linguaggio e la sua grammatica in costante china, dovuta a diverse cause.
Certamente una delle cause principali è la scuola che, sempre meno esigente e più permissiva, premia la mediocrità. Altro che merito. Soprattutto nei modelli nordeuropei, dove la cosa più importante sembra essere il passare il tempo all’aria aperta anziché studiare le varie materie, senza voti né bocciature e dove qualsiasi ostacolo viene aggirato anziché analizzato e affrontato, perché tutto ciò stressa i ragazzi. E i ragazzi non possono e non devono essere stressati, poverini, da un brutto voto o da un insuccesso, rischiano di essere traumatizzati. La nostra scuola è ancora un po’ più all’antica sebbene sia stata minata da insensate riforme ministeriali una dopo l’altra ormai da più di venticinque anni. Le quali, da ciò che si vede, non hanno migliorato assolutamente niente, anzi hanno prodotto il contrario, inondando il lavoro dei docenti con inutili burocrazie e compilazioni di carte che nessuno leggerà, incrementando la presenza deleteria dei genitori in ambiti dove questi ultimi non dovrebbero entrare perché gli insegnanti devono fare gli insegnanti per quei ragazzi piuttosto che assecondare le paturnie di padri e madri che non riescono a esserlo, non riuscendo a dare, alla fine, quell’attenzione agli allievi necessaria per un miglioramento della loro preparazione.
Il risultato è che, in gran parte, i ragazzi vengono fuori dalla scuola con gravissime lacune, soprattutto linguistiche, che non consentono loro di affrontare alcunché. Naturalmente non tutti, c’è una parte di giovani che arriva più attrezzata alla maturità e, eventualmente, all’università, ma, rispetto al passato, sembra essere di minore entità e non è solo un dato demografico. In genere i più disagiati sono coloro che vengono da famiglie problematiche lasciate a sé stesse, siano italiane da venti generazioni o appena sbarcate in Italia.
A ciò si aggiunge un gergo mediatico da social poverissimo e sgrammaticato, sempre più utilizzato come lingua reale e che ignora sintassi e semantica. Alla selezione del concorso per magistrati ordinari dell’anno scorso, alle prove scritte sono passati in pochissimi: 626 su 3.606 per 500 posti disponibili. E 3.606 erano i candidati che avevano consegnato i tre compiti sui 6.523 che si erano presentati.
Vuol dire che quasi 3.000 candidati non erano considerati nemmeno un po’ idonei a proseguire e questo significa un fallimento dell’istruzione perché un laureato non può non essere capace di scrivere, e soprattutto su argomenti che dovrebbe aver studiato. Potrei capire se ne fossero risultati idonei 2000, ma non 626, che è meno del 10% dei partecipanti totali. Gli altri 3.523 che non sono riusciti a presentare nemmeno i tre compiti scritti sono un altro buco nero su cui si dovrebbe riflettere.
E questo è già a un livello alto, diciamo, cioè giovani laureati che provano a farsi avanti nel mondo del lavoro. Figuriamoci quelli con preparazione inferiore ossia liceale o d’istituto professionale.
I problemi sono, soprattutto, a livello linguistico. Con disappunto, leggendo qui e là vari articoli, noto come anche persone giovani che si spacciano per giornalisti scrivano “c’entrare” per “entrarci” o altre perle sgrammaticate che denunciano una mancanza di nozioni idiomatiche basilari.
L’uso dei congiuntivi e dei condizionali, che arricchirebbe la proiezione delle azioni nel tempo e nello spazio di chi ambisse a esprimere un pensiero, è ormai qualcosa di obsoleto. Tutto all’indicativo, senza più periodi ipotetici, senza più profondità, senza più passato, futuro, possibilità. Un presente scarno, scialbo, che riflette la mentalità del tutto e subito della generazione Z, buona solo a imbrattare opere d’arte perché non è capace di organizzare un pensiero e dialogare con argomentazioni valide e non solo slogan senza possibilità di analisi. Difficilmente sanno come presentarsi a un colloquio di lavoro, proprio perché difficilmente sanno argomentare e difficilmente capiscono ciò che si chiede loro. Non comprendono, in maggioranza, che il lavoro non è un gioco e non capiscono che è importante fare esperienza, non vogliono essere stressati perché non ci sono abituati e quindi spesso perdono lavori che richiedono impegno e, perché no, anche qualche sacrificio iniziale, non avendo l’esperienza, soprattutto in termini di tempo. Poi si stupiscono se le aziende magari non li assumono e preferiscono persone più anziane che però funzionano. Sembra essere la tendenza attuale di molte aziende, dopo gli entusiasmi per i nuovi arrivi. Ma molti millennials sono solo abituati a giocare e ad essere troppo coccolati in famiglia, senza capire la complessità della vita.
Ogni tanto mi confronto con giovani che pretenderebbero tutto ma che non sanno nemmeno capire il contesto in cui vivono, proprio perché non hanno gli strumenti per decifrarlo. E li abbandono, non riesco a dialogarci, loro per primi non hanno pazienza, sono convinti di aver capito tutto perché sanno smanettare sul computer e di essere più veloci di te e se non comprendi il gergo che usano sei out.
Anche la povertà idiomatica è un sintomo di quanto poco le persone capiscano la complessità della realtà e quindi quanto rispondano d’istinto agli stimoli che provengono dall’esterno, incapaci di comprenderli più a fondo e interpretarli. Che poi è già complicato per chi i mezzi ce li ha, diciamola tutta.
Il gap idiomatico è ciò che impedisce alle persone di distinguere una politica unicamente demagogica da una buona politica, per esempio, o le truffe degli imbonitori che vendono le pentole 3×2 da acquisti oculati che magari si possono rivelare più vantaggiosi per la qualità, per fare un altro esempio.
La frase facile composta da una principale, senza subordinate, è ciò che viene spesso spacciato per “sintesi” quando invece è la sintesi di sé stessa, perché oltre la principale non c’è nient’altro. Quanta pseudoletteratura contemporanea è scritta solamente in principali con un lessico essenziale e vince pure premi letterari. Riassumete il vostro romanzo in dieci righe, viene detto. Sì, certo, come no, ecco le richieste di alcune case editrici o agenti letterari. Per non parlare di certi errori degli editor, possibilmente giovani e spensierati, che poi tocca ricorreggere. Il risultato è l’oblio della letteratura.
Va da sé che la povertà idiomatica rende le persone, giovani inclusi, più facilmente vittime degli arruffapopolo o dei soliti demagoghi alla Salvini, per esempio, che decodificano la realtà con slogan estremamente stringati – esibiti come la soluzione a tutti i problemi – che colpiscono lo spettatore ma non spiegano nulla, assecondando la paura del pubblico che in quello slogan si riconosce e si sente rassicurato. Senza strumenti idiomatici e critici la maggior parte delle persone è succube dei dogmi, siano essi religiosi o politici e il percorso verso un progresso reale è sempre più impervio.
Spesso ci si chiede perché ci sia una violenza sempre crescente, soprattutto in questi ultimi anni.
La violenza è la risposta più immediata per chi non riesce a dialogare dialetticamente, argomentando le proprie ragioni. E non lo può fare se non c’è, da entrambe le parti, una conoscenza delle sfumature della lingua, che illustra le possibilità della realtà per essere decifrata e compresa. La risposta rabbiosa e violenta è la più rapida, quella che garantisce una sorta di giustizia istantanea per il torto subìto o supposto ma che, tuttavia, è, nella maggior parte dei casi, la più sbagliata e la più dannosa per sé e per l’interlocutore.
Perfino i femminicidi, o gli omicidi in generale, sono anche, ma non solo, ovviamente, frutto di una difficoltà di dialogo, di una carenza a livello linguistico per portare avanti ragionevolmente le proprie esigenze. Spesso, infatti, il femminicidio viene seguito dal suicidio di chi ha commesso il primo, o la fuga presto bloccata dagli inquirenti, ossia non c’è nemmeno il “vantaggio” della vendetta, è la sconfitta su tutti i fronti dell’omicida. Invece, ciecamente, si dà unicamente la colpa al “patriarcato”, saltando tutti i passaggi che esistono all’interno delle dinamiche e, quindi, non capendo fino in fondo un problema che ha molte sfaccettature e componenti.
Naturalmente non ci sono solo questi fatti estremi come prodotti delle carenze espressive di un linguaggio.
La cosa più banale è il non comprendere ciò che si legge o ciò che si ascolta, per una precarietà sia di vocabolario sia di conoscenza delle forme verbali che, se espresse in una certa forma, conducono a significati inequivocabili ma, se non compresi, possono portare a malintesi fatali. La malattia colpisce anche senatori come Antonio Razzi, la cui lingua indecifrabile è emblematica del livello culturale di parecchi politici.
Ad ogni modo, non ci sono solo la conoscenza e l’uso della sintassi di una lingua a essere necessari per la comprensione della realtà. Anche lo studio della letteratura e del teatro, colla varietà di esempi di comportamenti dei personaggi e delle conseguenze di quei comportamenti, serve a collocare in una dimensione critica il giovane (o la persona più adulta) che legge o assiste a una rappresentazione e, magari, a comparare le esperienze proprie o di altre persone a quelle rappresentate o descritte e a crearsi una propria opinione.
Tutto ciò è assai difficile se non impossibile qualora i mezzi linguistici siano mediocri.
Non meravigliamoci, quindi, delle adunate neofasciste (soprattutto di giovani, uomini e donne) con saluti romani e rito del presente! in determinati ambienti dove l’alfabetizzazione, ivi compreso lo studio della Storia e della Geografia, è carente. Quelli sono gli esempi più nefasti di dove può condurre una mancanza di consapevolezza perché l’adesione acritica a mitologie attraenti e fasulle è passionale, immediata, non riflettuta. Perché è più facile, perché dribbla la complessità, perché, in quanto mitologia, rassicura nella sua linearità senza contraddittori.
Così com’era facile l’adesione agli slogan salviniani come Prima gli italiani, che non significa assolutamente niente ma che impressiona chi si sente escluso e che non capisce che votando lui lo sarà ancora di più, come dimostra questo governo che difende sempre più i ricchi e la classe dei politici e impoverisce ulteriormente, per contrasto, la classe media, per non parlare di quella povera. Anche l’abolizione dell’abuso d’ufficio va in quella direzione, autorizzando, in un paese corrotto come il nostro, nuove corruzioni che resteranno impunite.
Ma difficilmente chi non sa leggere tra le righe riuscirà a distinguere, meno che mai le generazioni x, y, z.
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