Lavoro

Provaci ancora Poletti

28 Novembre 2015

L’Italia è il fanalino di coda in Europa per numero di laureati. L’economia italiana ristagna. La quota d’investimento in ricerca e innovazione non ha, nel nostro paese, un’incoraggiante tradizione. In questo contesto il ministro del lavoro Giuliano Poletti ha avuto l’originale idea, intervenendo in occasione dell’apertura della convention Job&Orienta, di dichiarare l’inutilità di una laurea con 110 e lode a 28 anni. Meglio laurearsi a 21 con un 97. Questo, a suo avviso, al fine di trovare prima lavoro. Ma di che tipo di lavoro stiamo parlando? Laurearsi a 21 anni è possibile per gran parte dei corsi di durata triennale, ma è altresì vero che, per avere la qualifica piena, per molte professioni (architetti, ingegneri, psicologi, avvocati…) occorre la laurea magistrale e spesso un successivo percorso di tirocinio/abilitazione. Per altre professioni – ad esempio l’insegnamento – occorre comunque una laurea specialistica e un corso successivo che consenta l’accesso alle graduatorie degli abilitati. Questo per non parlare delle lauree a ciclo unico (medicina, odontoiatria, veterinaria, farmacia…) e di settori per i quali – volendo ambire ad un livello professionale alto – occorre comunque il diploma di laurea magistrale (molte delle professioni di carattere economico/finanziario). Rimangono certamente alcuni corsi che offrono piena spendibilità del titolo già al termine dei tre anni, ma non rappresentano la maggioranza dell’offerta formativa italiana.

Vengono poi le dolenti note legate al mercato del lavoro, che spesso non valorizza i laureati, ma cerca la maggior resa con “la minor spesa”. E così capita, non di rado, che al laureato si preferisca il diplomato, perché costa meno, perché è più giovane e può essere inserito in un percorso di tirocinio/apprendistato a basso costo per il datore di lavoro e poi – eventualmente – prontamente sostituito attingendo alla larga schiera dei suoi colleghi, in un continuo turn over. Inoltre, ad esclusione di alcune professioni, è sempre più difficile che i neo laureati trovino un impiego perfettamente rispondente al percorso formativo svolto. Un quadro decisamente non incoraggiante per le “giovani leve”. A fronte di queste premesse la soluzione del ministro sembrerebbe legata ad un semplice dato cronologico: accedete prima al mercato del lavoro, senza preoccuparvi eccessivamente della resa accademica. Ma a cosa serve una laurea presa solo per “avere un pezzo di carta”? Se la laurea fosse in sé garanzia di un buon posto di lavoro, il suggerimento del ministro potrebbe avere senso. Quando, nell’epoca della sua formazione, il laureato medio non aveva alcuna difficoltà a trovare un impiego dignitoso una volta uscito dal percorso universitario, “sbrigarsi” poteva significare il conseguimento anticipato dell’autonomia economica e, di conseguenza, l’inizio del proprio progetto di vita. Ma ora? Ad esclusione di pochissimi corsi di laurea il famoso “pezzo di carta” non ha alcun valore in sé e per sé. Contano le esperienze fatte, gli approfondimenti, le famose “skills” acquisite, la qualità di un percorso di formazione capace di fornire le basi per l’adattamento a diversi contesti lavorativi. Capacità di adattamento, flessibilità mentale, ricerca e orientamento, abilità nel leggere il contesto. Tutto questo non si può acquisire con la fretta. L’esperienza non si fa in fretta. L’approfondimento culturale richiede i giusti tempi.

Anche la ripresa economica, ci dicono, richiede i suoi tempi. In particolare se basata su una prospettiva di lungo raggio, sull’idea d’innovazione e creazione di nuove opportunità, sull’aggiornamento di metodi, energie e prodotti. Tutto questo non può realizzarsi senza una formazione di qualità. Il fine non può essere quello della formazione di una manodopera efficiente, ma limitata per competenze e attitudini alla flessibilità cognitiva. Forse il ministro è stato ingannato dai dati di altri paesi, dove però il sistema scolastico e di formazione prevede altri ritmi e  altri metodi. Paesi nei quali, in molti casi, la laurea non ha valore legale, dove non esistono gli ordini professionali. Sistemi diversi. Non necessariamente migliori o peggiori. Tuttavia, prima di rivolgersi all’ultimo anello della catena, dando ancora una volta suggerimenti paternalistici e di scarsa utilità a ragazzi che – già di per sé – devono arrabattarsi, il ministro potrebbe concentrarsi, insieme con i suoi colleghi, su più ampie questioni, come il problema del rapporto formazione/lavoro in Italia.  Potrebbe essere un contributo più utile per lo sviluppo di tutto il Paese.

 

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