Lavoro
Poletti, l’orario di lavoro e i sindacati rimasti al Novecento
Chi lavora alla catena di montaggio ha bisogno di tutte le garanzie possibili, come è ovvio per tutti i lavori particolarmente usuranti. E queste garanzie possono anche avere la forma di un orario di lavoro prestabilito e intoccabile, tanto più che questo modello si adatta alla perfezione a un lavoro “non stop” per definizione come quello in fabbrica.
Il punto, però, è che già oggi in Italia (e ancor più altrove) l’orario di lavoro non esiste più per una quota crescente di lavoratori. Il cui stipendio dipende sempre più dalle prestazioni e sempre meno dalle ore lavorate, senza che nei loro confronti sia prevista nessuna forma di tutela. Una modalità che non riguarda più (da tempo) solo i “grandi professionisti”, ma anche tanti giovani immersi in nuovi mondi lavorativi che spesso un ufficio non l’hanno neanche mai visto. Così come non hanno mai visto un contratto, uno stipendio decente, una qualche minima forma di tutela. I sindacati che si schierano compatti contro Poletti non appena dice una parola sull’orario di lavoro, non hanno nulla da dire riguardo a questa situazione?
E che dire, invece, dei tanti impiegati e dipendenti il cui ufficio si trasforma in una gabbia in cui buttare via una parte delle proprie giornate? In quanti casi si è costretti a restare seduti alla propria postazione fino alle 18 anche se non si ha più nulla da fare? È possibile che così tante ore di vita debbano essere sottratte quotidianamente a centinaia di migliaia di persone senza alcuna ragione? Personalmente, credo che si dovrebbe dare molta più importanza alla possibilità di restituire alle persone il loro tempo.
Ho lavorato per qualche tempo per un mensile, e se c’era una cosa che odiavo erano le due settimane che seguivano la pubblicazione del numero. Nonostante non ci fosse praticamente nulla da fare per noi semplici redattori, non c’era modo di sfuggire all’orario 9-18. Con il solo risultato che si passava il tempo ad aggiornare compulsivamente la pagina Facebook e a sperare che uscisse qualcosa di nuovo da leggere su un qualunque sito. Salvo poi far immediatamente finta di avere qualcosa a cui lavorare non appena il direttore si palesava (il caporedattore, invece, era nostro complice in quanto ben conscio del fatto che non avessimo nulla da fare). Una noia mortale, tempo prezioso buttato e che si sarebbe potuto usare in modi molto migliori.
Quella era una situazione molto particolare, d’accordo; ma davvero è impossibile pensare a un mondo del lavoro in cui al dipendente viene data la libertà di tornare a casa quando non ha più nulla da fare? O che non debba essere costretto a lavorare in ufficio se può svolgere i suoi compiti da casa? Perché mai bisogna leggere le parole di Poletti nel modo più negativo possibile, quando si potrebbe interpretarle come un modo per rendere più libero il lavoro, cambiando alcuni parametri che non sono dei dogmi inattaccabili?
D’altra parte, anche l’articolo 36 della Repubblica recita: “Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e alla qualità del suo lavoro”, non si fa certo cenno a un orario di lavoro fisso e prestabilito.
I sindacati sembrano sempre più avere un ruolo reazionario. Di chi si oppone in ogni modo alle novità, alle possibili evoluzioni; che reagiscono sempre agitando lo spettro del “neoliberismo”, senza rendersi invece conto di quanto sia necessario ammettere che il neoliberismo più spregiudicato è già tra noi. E che continuare a negarne l’esistenza non è solo inutile, ma dannoso. Sarebbe molto meglio guardare in faccia la realtà e trovare un modo di affrontarla, uscendo da logiche che sono state giocoforza relegate al passato. Così, magari, si potrebbe provare a indirizzare il mondo del lavoro verso strade migliori di quelle che stiamo, comunque, battendo attualmente (senza che i sindacati se ne siano resi conto).
Aprire un dibattito in merito non può che fare bene, riconoscendo apertamente che sempre di più il lavoro funziona secondo canoni diversi dall’orario e che in molti altri casi sarebbe bene che lo facesse. E chissà che iniziando a riconoscere questi cambiamenti non si trovi anche un modo per tutelare maggiormente chi dal mondo dei garantiti si trova completamente escluso.
Mi rendo conto di quanto spesso dietro ai tentativi di introdurre forme di lavoro autonomo legate al risultato – come nel caso dell’ex contratto a progetto – si siano nascoste forme di sfruttamento del lavoratore dipendente (l’ho provato sulla mia pelle per un sacco di tempo); ma questo non significa che non si possa nemmeno affrontare l’argomento e provare a capire se ci sono modi diversi (e meno vincolanti) di lavorare. Il mondo sta cambiando: fa impressione che i sindacati diano ancora tutto questo valore al “cartellino” quando oggi chissà quanti potrebbero lavorare in mezzo a un bosco.
Sembra che Cgil, Cisl e Uil facciano finta di non accorgersi di cosa sta succedendo, per non doverne affrontare le conseguenze e rivedere i loro parametri. Chi invece in questo turboliberismo si trova immerso, non vede l’ora che anche in Italia sia possibile aprire un dibattito in merito, senza che dei gruppi di potere rimasti ancorati al secolo scorso agitino spauracchi che, per molti, sono la semplice realtà quotidiana.
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