Lavoro
Pochi laureati, ma nessuno li assume: parte un’altra riforma dell’università?
Il 24 novembre è stato pubblicato il rapporto annuale dell’OCSE Education at a Glance, che raccoglie ed elabora i principali indicatori statistici relativi all’istruzione nei paesi membri dell’organizzazione. Si tratta di una delle fonti più autorevoli e accurate per impostare comparazioni tra i paesi sviluppati sull’argomento, essendo diffuso da un organismo che da decenni si sforza di guardare al problema educativo secondo la prospettiva fondamentale del suo contributo all’innesco e al consolidamento dello sviluppo economico.
I dati esposti, naturalmente, confermano per l’Italia una situazione piuttosto complicata soprattutto nel campo dell’istruzione superiore e dell’università. In un’economia globale in cui la conservazione dello status di paese sviluppato passa soprattutto attraverso l’elevata qualità delle competenze della propria forza-lavoro e la capacità di “vendere” saperi e tecniche destinate a garantire elevato valore aggiunto, e in cui quindi dovrebbe diventare maggioritario, se non universale, il ricorso dei giovani alla complessità e alle opportunità di internazionalizzazione dell’istruzione superiore, ancora ben meno di metà dei neodiplomati prosegue gli studi, e solo un terzo li conclude con successo. Si tratta di valori piuttosto lontani sia dalla media OCSE che da quella degli altri paesi europei. La sofferenza è poi concentrata soprattutto sulle lauree di primo livello e sugli istituti superiori non accademici, sostanzialmente non ancora decollati, a dimostrazione del fatto che lo sforzo di adeguare le strutture universitarie a standard più avanzati attraverso l’esecuzione del (pur criticato) Bologna Process non ha dato i frutti sperati, e il sistema rimane ancorato all’idea di una formazione universitaria “lunga” e selettiva, che possa di per sé “contare qualcosa” sul mercato per il solo fattore numero. Questo auspicio non trova però riscontri di fronte alla relativa difficoltà dei laureati a inserirsi con fluidità nel mondo del lavoro: il 62% dei italiani tra i 25 e i 34 anni dotati di un titolo di studio superiore al diploma di scuola secondaria lavora, con una riduzione costante negli ultimi anni, e soprattutto a fronte di percentuali più alte anche di 20 punti, e sostanzialmente costanti in questi anni di crisi, di Francia e Germania.
I commenti della stampa italiana non si sono fatti attendere. Il Sole 24 Ore, almeno stavolta, si è mostrato piuttosto equilibrato, soprattutto perché il cronista ha avuto la buona idea di contattare, e lasciar parlare, Francesco Avvisati, il competente analista italiano che ha partecipato all’elaborazione del rapporto. Le parole di Avvisati hanno infatti chiarito che questi risultati, ormai consolidati da tempo, permangono nonostante gli sforzi politici e l’impegno degli addetti ai lavori per rendere più efficaci i percorsi di formazione in vista di un futuro professionale.
La reazione media del pubblicista nostrano, però, si allontana alquanto da questo atteggiamento: l’opinione corrente è che, se università e mercato del lavoro non si trovano, occorre intervenire pesantemente su università palesemente inadeguate per dinamiche occupazionali italiane che o sono considerate ineccepibili, o sono viste come una sorta di variabile indipendente. E a sentire certe voci quasi ci si dimentica che l’ultimo intervento di riforma che gli atenei stanno metabolizzando è avvenuto cinque anni fa, che dal 1990 abbiamo avuto legislazioni nuove in media proprio ogni cinque anni, e che le voci critiche che chiedono, ottengono e orientano queste riforme sono più o meno sempre le stesse, pronte a criticare il grande e definitivo mutamento che qualche anno prima avevano promosso con campagne stampa mirate. Ecco che allora i dati OCSE finiscono nel tritacarne della richiesta insistente di università più prone alle richieste, quali che siano, del “mercato del lavoro”, che preparino profili più immediatamente spendibili con percorsi più brevi e mirati, e che disincentivino pesantemente gli studenti a compiere scelte di studio “eterodosse” attraverso la leva della tassazione variabile.
Viene da chiedersi se forse non sia il caso di interrompere questo circolo vizioso con qualche considerazione di buon senso. Un punto di partenza è una constatazione che già altri su queste pagine hanno fatto: se la soluzione per l’occupazione degli studenti post-secondari è l’apertura di percorsi di specializzazione tecnica che hanno un buon successo in Francia e rappresentano tradizionalmente una solida alternativa all’università nei sistemi ispirati al mondo tedesco, perché le aziende italiane non importano questi profili, ad esempio dall’Europa centro-orientale, dove l’emigrazione in “occidente” rappresenta ancora un salto di qualità della vita per cui vale la pena studiare una lingua straniera e cambiare le proprie abitudini?
Detto questo, dovrebbe magari sorgere qualche dubbio in più. Se anche il sistema d’istruzione avanzata italiano, nonostante l’evidente sofferenza a cui lo costringono i periodici adeguamenti al ribasso del bilancio, gettasse il cuore oltre l’ostacolo e portasse a termine a marce forzate il suo percorso di adeguamento, le imprese italiane farebbero la fila per “superdiplomati” sfornati dai nuovi percorsi di studi, visto che già ora non li cercano? Ma perché dovrebbero, in un tessuto produttivo in cui più che produrre bene cose vendibili con adeguato valore aggiunto, col rischio magari di fallire comunque per un colpo di sfortuna imprevedibile, vale la pena assumere personale di bassa qualità (e quindi a basso costo) per produrre male e poi farsi sussidiare minacciando lo Stato di licenziare e ingrossare così le fila del malcontento? E di conseguenza perché gli studenti dovrebbero essere così illuminati da scegliere, contribuendo alla loro promozione, i percorsi di studio idealmente più al passo coi tempi e con le necessità di una grande economia sviluppata, se quello che poi sarà richiesto loro sarà, nel più remunerativo, dei casi, di avere un pezzo di carta con cui giustificare la decisione presa grazie alla raccomandazione del vicino?
Uscendo da questa serie di considerazioni da bar, è forse il caso di fondarsi su qualche elemento più concreto e controllato. In primo luogo, al di là delle persistenti narrazioni negative è ormai assodato che i problemi dell’università italiana non sono determinati né dalla qualità potenziale degli studi, né dal livello di preparazione del suo corpo docente e ricercatore: il nostro paese occupa il posto che dovrebbe occupare negli indicatori della produzione di conoscenza, e i suoi laureati di punta non si differenziano, nella capacità di inserirsi con profitto nell’economia globale della conoscenza, da quelli del resto d’Europa. Persino i famigerati ranking specializzati, efficaci strumenti di marketing e di promozione che quindi dovrebbero essere presi come tali (e chi lo fa di solito fa bene) stanno a dimostrare questa solidità: per il Times Higher Education l’Italia è il terzo paese europeo, e il secondo dell’Europa continentale, per numero di atenei piazzati nei primi 400 posti (ovvero in un ideale top 10%), e si conferma, insieme alla Germania e davanti a una Francia schiacciata sulla sua capitale, come una potenza regionale in istruzione superiore e ricerca, capace di tenere su un livello medio di assoluto valore atenei che ospitano circa il 30% dei suoi studenti (mentre una percentuale assai minore di studenti statunitensi, per dire, può frequentare università così in alto in graduatoria). I limiti di sistema sono di altra natura: l’università italiana è autoreferenziale, in grado di produrre programmi ottimi sulla base degli standard che la comunità accademica stessa si dà, ma meno di dialogare con the real world; il controllo dell’apprendimento è spesso inefficace, e si risolve o nel todos caballeros per cui alla fine, sbattendo la testa più volte su qualche esame più tosto e prendendo gli altri esaminatori per stanchezza, si laureano tutti, o nel filtro assoluto per cui solo l’eccellenza si laurea e non ci si pone neppure il problema di migliorare le competenze di chi eccellente non è, con l’identico effetto di garantire una preparazione ottima a chi ha un background di qualità e/o la capacità di imporsi autonomamente costanza e impegno nello studio; l’integrazione con le scuole secondarie, per risolvere entrambe le questioni, è ancora episodica e problematica.
La radice di questi problemi si può comprendere con un modello di analisi, estremamente semplificato e finanche semplicistico, che farà piacere agli economisti (quelli che solitamente sbraitano più rumorosamente il loro rancore verso un mondo accademico che non è come vorrebbero che fosse) perché riduce tutto il meccanismo alla domanda e all’offerta. Committente dell’università e “cliente” per i suoi “prodotti” (riassumibili nella conoscenza, in forma di brevetti, idee, obiettivi d’impegno, o competenze che camminano sulle gambe degli studenti) è la società, intesa anche come mondo del lavoro e dell’impresa. Perché l’università possa adeguarsi alle istanze della propria committenza, non basta che un governo cali dall’alto, alla giacobina, nuovi ordinamenti e li imponga: serve innanzi tutto che queste istanze ci siano, e cioè che l’imprenditoria italiana si mostri in grado di assorbire un certo tipo di personale qualificato, e si mostri pronta a metterlo a frutto e a valutarne seriamente le doti in modo che i programmi di formazione possano cambiare e migliorarsi sulla base di aspettative espresse alla prova dei fatti. E per ottenere questo risultato bisogna che, tra università e paese, cambi più profondamente l’elemento che è attualmente più lontano, nei suoi standard di qualità e nelle sue dinamiche sociali, dai suoi omologhi nei contesti più compiutamente sviluppati, ovvero il paese. Servirebbe, insomma, costringere la nostra economia a produrre per la competizione internazionale, e quindi costringere i nostri centri produttivi ad avere davvero bisogno di attrezzarsi al meglio e di compiere scelte di qualità per sopravvivere. Ci vorrebbe un governo che, gradualmente ma con fermezza, eliminasse tutti i paracadute che finora salvano chi è pericolante dal baratro, e che non avesse paura di affrontare l’inevitabile malcontento diffuso di un paese in cui guardare in faccia alla realtà significherà, nel breve periodo, gettare tra gli stenti milioni di persone che passeranno dal percepire un reddito che non producono al mero (se sarà possibile erogarlo) sussidio statale.
Uno scenario del genere è accettabile da un governo democratico che tiene alla propria pelle? No, ed ecco perché, per l’ennesima volta, si otterranno “risultati” nel modo più semplice: se università e paese, oggi come ieri, non sono connessi, a cambiare dovrà essere l’elemento più limitato e soprattutto più gestibile, perché debole, privo di ampie reti di supporto e di reazione agli attacchi e anzi tradizionalmente diviso al suo interno, fiaccato dalla cattiva stampa, e come se non bastasse quasi totalmente sotto controllo della regolazione pubblica e quindi più semplice da rivoltare come un calzino a scadenze periodiche.
Prepariamoci dunque a un’altra “riforma” che si potrà dire di aver fatto per il gusto di sventolare un trofeo al pubblico, ma non diamo come al solito la colpa a Renzi per questa brutta abitudine: il presidente del Consiglio sicuramente ci si è abituato presto, ma è proprio la storia dell’università nell’ultimo quarto di secolo a dimostrare che questa pratica, ahinoi, non l’ha inventata lui…
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