Governo
Perché il Decreto Dignità è italoscettico e perché voglio il Decreto Ottimismo
Con l’avanzare dell’età e la (si spera lenta) conseguente atrofizzazione della corteccia celebrale, la possibilità di trovare nella realtà conforto alle proprie idee e finanche pregiudizi riesce sempre più gradita, quasi balsamica.
Così l’incedere baldanzoso del Governo Orban-Gava ogni giorno conforta ogni impressione da me modestamente esternata su questa prestigiosa testata circa non solo la loro crassa incompetenza e inadeguatezza, ma anche la loro condotta fraudolenta a base di promesse non mantenibili, bugie da asilo Mariuccia e minacce da squilibrati.
Avendo però a che fare con dei top player dello sfascio, la realtà non cessa di stupirmi e anzi mi supera regalando anche perle di contrarietà non solo sulla cronaca, ma anche addirittura sull’ideologia che anima le scelte del Governo, anche nella componente di solido ideologicamente gelatinosa dei 5 Stelle. È successo ad esempio con il cosiddetto “Decreto Dignità”, la prima misura-simbolo del Superministro Di Maio, il suo Manifesto del Lavoro (e dello Sviluppo Economico, avendo il nostro deciso di sbeffeggiare il Principio di Peter sull’incompetenza riunendo sotto di sé, e sotto la povera Assunta detta Assia, i due Ministeri), che descrive e auspica un paese e uno Stato che non solo non riconoscono ma che decisamente rifuggo e combatto.
Ormai diffidente delle ricostruzioni della Stampa antiborghese, me lo sono andato a leggere il Decreto Dignità, sospetto sin da quel termine, “dignità”, che deve portarsi molto a Napoli, visto che già il primo Sindaco Bassolino nel 1993 istituì con questo nome un Assessorato, presto dimenticato, per promuovere il riscatto della città povera ma bella. Dignità dunque come concetto scarpettiano, composta e orgogliosa povertà negli occhi scuri e nelle guance scavate di Eduardo De Filippo nelle sue commedie e nelle sue poesie come “Peppino Girella”, che parla proprio della disperazione dei senza lavoro.
L’ho letto il Decreto, dicevo, e ne ho ricavato l’amara impressione di un approccio ideologico a suo modo coerente ed esiziale nei confronti del lavoro e più in generale del ruolo del Governo e dello Stato nella vita delle persone. Un approccio che impasta Stato-Mamma, che ti protegge dagli sfruttatori (tutti i datori di lavoro) e dai pericoli dai quali non sai difenderti (incluso sé stessi nell’accostamento inedito e indigesto tra misure sul lavoro e contro la Ludopatia), diffidenza verso le imprese da anni ’70 e totale disinteresse per innovazione e competenze.
Il Decreto Dignità è un decreto italoscettico, che non pensa che questo paese abbia le risorse per farcela e dunque immagina il ruolo dello stato come una grande ginocchiera che ti protegga dalle cadute (chi se ne frega se con le ginocchiere non riesci a muoverti, il movimento è sopravvalutato e pericoloso).
L’italoscetticismo, tanto verso la nostra economia quanto verso i cittadini, è ovunque nel Decreto, partorito da chi fondamentalmente pensa non solo che ogni datore di lavoro in Italia sia un manigoldo da tenere d’occhio ma anche che in fondo i lavoratori italiani di ogni età siano carne da cannone da salvaguardare alzandone il prezzo come le mele dell’Esselunga.
Lasciando da parte i padroni, io ho visto da quando sono nato un lavoro molto diverso da così.
Sono figlio di artigiani lombardi e per me il Lavoro è sempre stato un fratello maggiore sempre seduto a tavola e nel posto del figlio preferito. A Milano, dove sono nato e alla cui cultura sono orgoglioso di appartenere alle persone appena incontrate si chiede “che lavoro fai?” o più pudicamente “di cosa ti occupi?”, perché la Rivoluzione Francese non è passata invano e quello che uno ha ottenuto da solo è più importante e di valore del proprio status (a Roma per dire ti chiedono prima “dove abiti?” o “chi conosci?”). occupandomi in questi anni di innovazione e piccole imprese a livello nazionale ho avuto la straordinaria fortuna di vedere questa passione e questo attaccamento identitario al lavoro in migliaia di artigiani e lavoratori, dal Friuli alla Sicilia. Per ognuno di loro, e messi insieme sono tanti, tantissimi, perdere un operaio specializzato è una delle peggiori disgrazie possibili mentre trovare apprendisti appassionati è un enorme colpo di fortuna.
Non è dickensismo da quattro soldi, ma la semplice costatazione che il sistema diffuso della piccola impresa (oltre il 95% delle imprese italiane) ha con il lavoro e i lavoratori un rapporto giocoforza più sano e rispettoso di quello che il Decreto Dignità intende bastonare facendo di ogni erba un fascio e se si fosse dedicato al sistema delle piccole imprese italiane un decimo dell’attenzione dedicata all’ILVA (che va difesa strenuamente) questo sarebbe di dominio pubblico.
Due anni fa, mi si perdoni l’autocitazione, scrissi in un libro che l’incontro tra artigianalità diffusa e nuove tecnologie avrebbe prodotto in 10 anni in Italia un aumento di 2 punti di PIL che vogliono dire molta dignità e tanti, buoni posti di lavoro, anche grazie a investimenti esteri. Per raggiungere questo risultato, bisognava scommettere su innovazione e nuove competenze, sostenere l’interesse delle giovani generazioni per la nuova manifattura, rilanciare la nostra biodiversità produttiva e finanche, vivaddio, essere un po’ ottimisti sulla capacità dell’Italia di farcela se si fosse data una mossa.
Nel Decreto Dignità non c’è niente di questo, e in definitiva non c’è niente che faccia sperare per il futuro. Eduardo siamo noi e anche i nostri figli e i loro figli.
Le schermaglie del Governo con INPS e Confindustria, che evidentemente segnalano gli effetti chiaramente depressivi della misura, restano però sulla superficie ragionieristica del problema. Certo, irrigidire il mercato del lavoro da Aosta a Otranto mappandolo sui braccianti agricoli, sui NEET o i rider di Foodora può disincentivare nuove assunzioni in chi consuma braccia e voci velocemente e senza eccessivo riguardo a chi sei, cosa sai, da dove vieni. Dove il lavoro è sfruttato e dove si fa impresa alle spalle dei lavoratori e dello Stato è necessario intervenire.
Al tempo stesso non è concepibile che in un Decreto sulla dignità del Lavoro non si parli di competenze, di formazione, di riqualificazione dei lavoratori, di nuove tecnologie, ossia degli strumenti attraverso i quali il lavoratore, anche il figlio del povero Peppino Girella, può acquisire ben più che la Dignità.
Sinceramente, la parte che mi fa più incazzare è proprio quella sui giovani, trattati da fardello la cui assunzione deve essere incentivata, altrimenti povere bestie non le vuole nessuno. Chi pensa questo nel 2018 non è solo incompetente, in malafede e mai uscito dal raccordo anulare, è proprio cretino.
Forse pretendere che dei Populisti si occupino di futuro è sbagliato, eccessivo, soprattutto perché per ora sono molto più redditizi i guaiti contro i negher e buonisti con la maglietta rossa. Sarei però curioso di sapere se ad esempio quegli imprenditori del Nordest che hanno votato Salvini e vivono di pane e lavoro sono d’accordo con l’etica del lavoro zaloniana che pervade il Decreto o non credono che l’occupabilità a vita sia meglio del posto fisso per legge.
Un’opposizione a questo Governo, se vi fosse, invece di cercare goffamente di recuperare una street cred nel dare voce alla Sfiga avrebbe davanti praterie nel dare voce proprio all’intrinseca dignità del Lavoro.
Lavorare, studiare e cercare lavoro sono già di per sé azioni colme di dignità, che dunque non serve per decreto, mentre servirebbe come il pane un po’ di fiducia nell’Italia, e tanto gramsciano ottimismo.
L’opposizione, se vi fosse, dovrebbe contrapporre al Decreto Dignità un bel Decreto Ottimismo, che punti proprio su quelle categorie che l’italoscettico Di Maio vuole proteggere e scommetta sulla nostra capacità di crescere, di attrarre investimenti, di creare lavoro e perfino di vendere il Gorgonzola in Canada.
Cosa ci metterei dentro? Tanta tanta scuola, tanto tanto digitale, meno tasse sul lavoro e tante tasse sulla rendita, compreso chi campa di Airbnb, l’incentivo a cambiare lavoro per gli over 60 e il servizio civile di manager, insegnanti e imprenditori per creare impresa al Sud.
Il resto toccherebbe all’opposizione, se vi fosse.
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