Lavoro
Penne precarie
L’articolo è stato pubblicato sulla newsletter di PuntoCritico.info del 22 settembre 2023
Era precario. Era un essere umano che cercava di affrontare la vita nonostante i suoi scossoni. E quando è arrivata un’altra delusione personale, nel mezzo dell’instabilità, ha deciso che quella tempesta lo stava lacerando da troppo tempo: ha teso una corda verso una via d’uscita che gli sembrava preferibile alla desolazione. Così moriva suicida nel 2011 a Bari Pierpaolo Faggiano. La sua morte spinse l’Ordine dei giornalisti all’adozione della Carta di Firenze, il testo deontologico inserito dal 2021 nel Testo Unico che dovrebbe tutelare il lavoro giornalistico. Ma quel pezzo di carta è rimasto lettera morta.
La situazione di precarietà della stampa italiana è un dato di fatto che non mette a rischio solo la salute e la dignità dei giornalisti. Secondo l’Indice sulla libertà di stampa di Reporters sans frontier, l’organizzazione che monitora la salute e l’imparzialità dei media, l’Italia si trova al 41esimo posto nel mondo (su 180). Potrebbe sembrare un dato positivo, non fosse per alcuni elementi che di positivo hanno ben poco. Se si considera invece il livello di precarietà economica della stampa (cioè le costrizioni economiche favorite da governi, agenti non governativi ed editori), il nostro paese scivola al 51esimo posto; dietro cioè a Stati come Ecuador (33esimo) Gambia (39esimo) e Montenegro (42esimo). E ancora al 68esimo posto, dietro a paesi come la Polonia e il Kosovo, se si considerano le coercizioni dovute a elementi di tipo socio-culturale (razza, identità di genere, orientamento sessuale ecc).
In un mondo dove già la stampa deve combattere da una parte contro le fake news e dall’altra contro la censura e la violenza, la costrizione economica si accompagna spesso a fenomeni di sfruttamento, ricatto e povertà. “Ho iniziato a scrivere per una testata online durante il periodo di servizio civile: guadagnavo poco con il rimborso del Ministero delle politiche giovanili, e mi avevano già messo in chiaro che una carriera nel mondo accademico era esclusa – racconta S., 28 anni laureata triennale e magistrale in Lettere dell’Università di Genova – mi piaceva scrivere, e ho pensato di arrotondare scrivendo degli articoli”. Un’esperienza talmente positiva che oggi S. ha preferito cambiare completamente settore. Il primo contatto col giornalismo lo ha avuto lavorando per una testata online. La direzione sta a Roma, ma S. non li vede né sente per tutta la durata del suo contratto. “È durata un annetto, si trattava di una testata online che in realtà era più che altro un ‘contenitore di testate’. Erano turni di 3-4 ore, pagati 3 euro ad articolo. I pagamenti avvenivano con ritenuta d’acconto ogni 4 mesi”. Dato il ridotto tempo a disposizione nei turni “praticamente eri spinta, anzi proprio eravamo incoraggiate, a copiare e incollare sistemando i pezzi di altre fonti. Non puoi scrivere un articolo ex novo con così poco tempo e con una paga così misera. Forse c’era un iscritto all’ordine dei giornalisti, ma non credo di più”.
Senza formazione sui loro diritti, senza alcun legame con l’Ordine e quindi senza possibilità di capire quali erano i limiti dei loro datori di lavoro, lei e altre ragazze si sono trovate senza tutela. Quando la intervisto, per la prima volta, sente parlare del reato di omesso controllo: una misura specifica che ricade sui direttori delle testate giornalistiche e che, in caso di un reato a mezzo stampa ed esclusa la responsabilità per concorso, punisce a titolo di colpa anche i direttori responsabili Di tutto questo, né S. né le sue colleghe avevano mai sentito parlare. “Una ragazza è stata denunciata per violazione dei diritti d’autore: una testata si era accorta che un articolo era stato scopiazzato da un proprio reportage. Quando ha chiesto come dovesse comportarsi, la direzione le ha risposto che erano problemi suoi”. Dopo un anno, i termini del suo contratto cambiano: da ritenuta d’acconto si vuole costringere le redattrici a passare alla partita Iva. A quel punto decide di andarsene.
Anche E., 34 anni, entra nel mondo dell’informazione in modo non convenzionale. Dopo essersi specializzata in Informazione ed Editoria all’Università degli studi di Genova, passa diverso tempo prima in stage non retribuiti presso redazioni locali, poi spedendo in giro il suo cv. A un anno dalla laurea, arriva un’offerta: responsabile della comunicazione e social media manager per un liceo. Il problema? L’assenza di contratto. “Un giorno, era il 2020, in piena zona rossa, mi chiede di andare a scuola perché mi deve parlare (io lavoravo da remoto). Voleva lamentarsi per una diretta Instagram che era stata una mia idea ma non era stata perfetta al primo colpo. Mi ha detto che avrei dovuto presentarmi due ore a settimana a scuola, ma non potevo: eravamo in zona rossa e io lavoravo in nero”. Il contratto diventa una forma di ricatto per convincerla ad aggirare la legge: “mi disse: ‘se ti comporti bene, visto che ho instaurato un certo ambiente nella scuola e vieni almeno 2 volte a settimana, ti faccio un contrattino’. La maggior parte delle persone che lavorano per lei sono assunte con contratti co.co.co.. In più, ho scoperto dopo da alcune colleghe che era refrattaria a concedere la malattia. Mi sono opposta, non avevo un contratto e non volevo beccarmi una multa, se mi avessero fermato. Mi ha risposto: ‘vieni a lavorare come facciamo tutti, con l’autocertificazione’”. Tutto questo per 300 euro al mese, variabili. Dopo un anno in condizioni precarie e vittima di mobbing, le arriva (“fortunatamente” specifica E.) una mail di “licenziamento”.
Non va meglio a chi esce dalle scuole di giornalismo, undici in tutta Italia, peraltro con un deciso squilibrio tra Nord e Sud (al Meridione ci sono solo Bari e Napoli, ben tre opzioni nella sola Milano). Si tratta di istituzioni che al termine di una formazione di due anni permettono l’accesso diretto all’esame da professionista. Un primo campanello d’allarme arriva dai prezzi: si parte dagli 8 mila euro dell’Università Aldo Moro ai 21 mila euro della Luiss. Poche borse di studio. Chi accede al giornalismo così è un appartenente a un ceto medio alto. Aggiungendo che città come Roma, Bologna e Milano hanno i loro (famigerati) costi per un fuorisede, ciò rende ancora più elitario l’accesso alla specializzazione. Il che taglia fuori i meno abbienti dalla possibilità di farsi sentire o leggere. Basta fare la scuola di giornalismo per scansare il precariato? Decisamente, no.
“Si basava tutto su un accordo verbale, senza contratto. I soldi arrivavano con assegni per posta, tra i 1200/1300 euro per sei mesi ma senza un fisso, grossomodo 200 euro al mese”
A., siciliano, collabora oggi con un giornale locale della sua regione. Lo pagano ogni sei mesi, ma non sono puntuali: per dicembre, gennaio e febbraio sono arrivati tra i 50 e il centinaio, all’incirca, di euro; dei restanti mesi, ancora nulla. Però dice “è una collaborazione occasionale e i soldi sono quelli detti, quindi ci sta”. Quando ripensa al mondo di cui ha fatto parte, quello delle agenzie di stampa, una collaborazione occasionale sembra un eldorado. “Si basava tutto su un accordo verbale, senza contratto. I soldi arrivavano con assegni per posta, tra i 1200/1300 euro per sei mesi ma senza un fisso, grossomodo 200 euro al mese”. Dopo alcuni mesi, sempre a parole, si inizia a parlare di un contratto migliore. Gli propongono un accordo più lungo, pur senza retribuzione periodica. “Avrei dovuto finalizzare tutto a novembre o dicembre. Non li ho più sentiti”. Anche M. ha lavorato nel settore delle agenzie di stampa. Una in particolare, che descrive come un ambiente “pesante, sessiste e omofobo”, l’ha tenuto sospeso tra l’Emilia e il Lazio. “Avrei dovuto fare il corrispondente dal Consiglio Regionale per 700 euro al mese. Ero in procinto di trasferirmi quando mi dicono che è saltato tutto e di venire a Roma, per 800 euro al mese. In entrambi i casi in ritenuta d’acconto”. Il contratto manca di qualsiasi riferimento a ferie, malattia etc. Quando chiede spiegazioni l’agenzia forza la mano, e lui decide di accettare. “Lavoravamo in due turni, dalle 6 alle 14 o dalle 14 alle 22, sei giorni su sette. Non c’erano però orari fissi, mi chiamavano a tutte le ore. A fine Febbraio 2020 mi hanno dato il benservito, ‘concedendomi’ un mese pagato. Senza motivazione”. Perché l’assenza di spiegazioni? Perché sulla carta M. risulta un collaboratore occasionale; anche se nei fatti era un dipendente.
“Per 5 anni ho fatturato 500 euro lordi al mese, a partita Iva. Guadagnavo così poco che ogni anno l’INPGI 2 [l’ente previdenziale dei giornalisti inquadrati come lavoratori autonomi o atipici] mi chiedeva di pagare per vedermi riconosciuto un anno di contributi, perché non guadagnavo abbastanza. Eppure lavoravo anche 16 ore al giorno, senza malattia, né ferie né giorni liberi: sulla carta ero una collaboratrice, non una dipendente”. Eppure G. ha sopportato per anni, certo “solo grazie a una borsa di dottorato che per 3 anni mi ha permesso di sopravvivere”, ma soprattutto per vocazione. Nel suo comune del Meridione diventa la voce di riferimento di chi crede nella legalità. Ma poi arriva un’inchiesta. E il precario equilibrio si spezza. “Era un pezzo sull’inquinamento dell’acqua pubblica da tetracloroetilene, causato dalle industrie conciarie nelle vicinanze e da depositi in cui si sarebbero dovuti trattare i rifiuti, e invece si contaminavano le falde. Dopo mesi di lavoro, mi resi conto che l’inchiesta era pilotata: serviva a un imprenditore della zona per mettere le mani sul sistema di depurazione”. Oggi G. ha lasciato la sua testata, lavora per un grande gruppo editoriale nazionale: raccoglie gli sponsor che finiscono, tramite i redazionali, sulle pagine tra un’inchiesta e un reportage. “I giornali oggi li finanzia solo chi li vuole usare come megafono. I grandi gruppi editoriali sono quotati in borsa e devono far quadrare i bilanci. Così le linee editoriali, a causa delle ingerenze di capitale, non sono più libere. Su venti pagine, almeno dieci sono di redazionali”. Oltre alla concorrenza spietata e al web “dove tutti si sentono giornalisti” lamenta anche “la diseducazione della gente, che non capisce che l’informazione va pagata. Perché se il giornalista non vive d’aria, se non viene pagato non mangia e se non lo paga il pubblico, lo pagherà uno sponsor. Ma a che prezzo per la sua imparzialità?”
In questa guerra tra poveri, dove collaboratori precari si litigano un contrattucolo come cani con un osso, l’assenza totale dell’Ordine si sente, come dice G. “nella formazione permanente, che ti informa dei tuoi diritti: è una chimera, soprattutto nelle formazioni di provincia. L’Ordine lì si vede solo quando serve a fare giochi di potere con le istituzioni”. Forse servono altre tragedie della povertà, come quella di Faggiano, per rompere la solitudine delle penne precarie italiane.
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