Lavoro
Non è questione di parole
Non è questione di parole.
La battaglia condotta da molti sulla selezione dei termini perché si adotti un linguaggio non sessista, corretto, capace di sottolineare le differenze di genere, nasce da buone intenzioni e opera affinché non tutto si omologhi in un maschile uniforme.
Tuttavia questa pur meritoria lotta coglie solo un aspetto di una realtà molto più complessa.
Le pari opportunità saranno tali quando le parole corrisponderanno alle cose, quando cioè sarà completamente superata la divaricazione tra teoria e prassi, quando finalmente il linguaggio sarà epurato da fanatismi solo ideologici e diventerà espressione di una realtà concreta.
Le pari opportunità passano principalmente attraverso la parità salariale. E anche questa non è solo una mera equiparazione di stipendi tra uomini e donne. È ben altro e spetta alla politica intervenire. Consiste nella rimozione di condizioni di svantaggio effettivo che colpiscono la donna e che sono il prodotto di una mentalità radicata e fino ad ora mai concretamente estirpata. Significa abolire quelle disomogeneità di prospettive e di stili di vita, per esempio tra Nord e Sud Italia a causa delle quali molte donne, nel Mezzogiorno in particolare, sono costrette ancora a scegliere il part- time per non sottrarre tempo alla casa, alla famiglia, alla coppia, sacrificando la propria carriera, le proprie inclinazioni. Non basta, infatti, una legge che estende il congedo parentale anche agli uomini, se poi il carico mentale grava comunque sulle donne.
Sì, perché di carico mentale si tratta: non solo fatica fisica – quella che porta ogni donna, nel triplice ruolo di madre, moglie e lavoratrice, ad essere ubiqua – ma proprio fatica psicologica, mentale, fatta di equilibrismi stressanti che asfissiano, che costringono la donne continuamente a mettere da parte la propria persona, i propri desideri e anche bisogni, perché la casa funzioni, perché il lavoro non ne risenta, perché la coppia non scoppi.
Tutto questo ha enormi conseguenze economiche che vanno dalla scelta quasi obbligata del part-time alla soluzione – sentita come necessaria – del demansionamento volontario, che lascia più tempo da dedicare alla casa, fino – nei casi estremi – all’autolicenziamento e all’auspicio di un riadattamento delle proprie abilità professionali in altri ambiti lavorativi meno onerosi, ma d’altra parte non in linea con i titoli di studio conseguiti.
Il problema va però esaminato in profondità. Occorre conquistare una chiara coscienza della propria personalità storica, per usare parole care a Gramsci, non solo come donne, ma come persone che lavorano e il cui servizio non viene adeguatamente riconosciuto dal punto di vista economico.
Il lavoro va remunerato e tutelato sempre e comunque. Ma oggi non è così.
È necessario, quindi, riportare la battaglia su un piano verticale: sfruttati contro sfruttatori. Si tratta dell’antica dialettica hegeliana servo/padrone. Oggi si tende a spostare la lotta su un piano orizzontale, individuando sottocategorie falsamente antitetiche: omo-eterosessuali; vegani-onnivori; cittadini-stranieri, uomini-donne. A ben guardare si tratta di antitesi che fanno solo comodo al grande mercato, alla cultura neoliberista del capitalismo radicale. È un antico principio volto a perpetuare lo strapotere dei pochi privilegiati: divide et impera.
La lotta non è tra uomini e donne, ma tra lavoratori sfruttati di sesso femminile – se si preferisce: lavoratrici; ma non è questo il punto – e sfruttatori che detengono le chiavi del potere.
Dunque, non è (solo) questione di parole.
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