Lavoro

Nell’università italiana mancano i…baroni!

10 Novembre 2014

Nell’università italiana mancano i baroni. Può sembrare una battuta, ma non lo è: è invece una battuta di humour toscano quella che mi hanno riportato anni fa, attribuita a un “barone” nel senso italiano del termine: “a far vincere un concorso a uno bravo sono buoni tutti, è per far vincere una capra che ci vuole uno forte”. E’ in questa soddisfazione che si esprime il barone italiano, e che in questo modo denuncia la sua “non-baronità”.

Non sarei voluto intervenire sulla questione universitaria, perché è come un soldato in trincea che scrive sulla guerra. Rischia di scrivere banalità poetiche come “l’università è bella anche se fa male”. E De Gregori non è proprio il mio genere. Però questa descrizione dell’università che deve solo chiedere soldi, e se avesse più soldi sarebbe un’ira di Dio è falsa. Ed è falsa perché, almeno in alcuni settori, non ci sono i baroni. Per capire perché non ci sono i baroni proverò qui a illustrare, senza la pretesa di essere esaustivo, esempi di quali sono i fini e i comportamenti di un barone e cosa sono i comportamenti (perché sinceramente i fini io ancora non li ho capiti) di quelli che in Italia chiamiamo “baroni”.

In primo luogo, i fini di un barone. Un barone difende la propria disciplina, e, in molti casi, un “paradigma”, nel senso di Kuhn. In termini più banali, un barone deve resistere agli attacchi che rischiano di trasformare una disciplina in una gabbia di matti in cui ognuno la spara come vuole (una cosa come la rete, per intenderci). Se invece le idee radicalmente nuove vincono, perché sono più coerenti con la realtà o con il resto della disciplina, i baroni alla fine si levano il cappello, consegnano le proprie penne, come nel film “A beautiful mind”. Per essere espliciti,  ad esempio, nel campo dell’economia i baroni cercano di tenere fuori dalla porta minchiate come la “decrescita felice”, e lo faranno fin quando non prevarrà la società bucolica, come quella degli “amici dell’amore eterno” di Carlo Verdone.  L’assalto a un “paradigma” si riconosce dalla collocazione editoriale, tipicamente periferica, e, in casi estremi come quello del nostro esempio, confinata a libri. I libri infatti sono una maledizione, perché sono controllati dal favore del pubblico, e non dei “peer”.

Il vero barone quindi è un vecchio campione che si presta a un perenne braccio di ferro con giovani virgulti di belle idee e belle speranze. E’ anche un vecchio gladiatore “liberto” che alleva giovani gladiatori che vorrà vedere combattere, disposto anche a vederli soccombere. Ma poiché dovranno combattere, per portare avanti la sua disciplina, il barone è disposto a disfarsene se non sono in grado di reggere l’arena. E qui stride la differenza con il comportamento dei baronetti di campagna nostrani, sul fronte dei cosiddetti ricercatori di tipo B, già citati da Alessandra Colle in questo dibattito.

I ricercatori di tipo B sono ricercatori che possono diventare professori associati se la produzione scientifica che fanno nei tre anni viene giudicata congrua. Un appunto: non deve essere giudicata congrua dalla Abilitazione Scientifica Nazionale, ma anche dall’ateneo e dei suoi “baroni”. Allora perché non si fanno ricercatori di tipo B? Perché si dà per scontato che il ricercatore di tipo B diventi professore associato. Perché non ci sono “baroni” che possano rendere questo passaggio non scontato.

Un vero “barone” sarebbe disposto a far diventare gladiatore un suo allievo solo se vince un confronto leale con altre giovani speranze dell’arena, e sarebbe disposto a lasciarlo morire se non è all’altezza. Così funziona negli Stati Uniti: una delle menti migliori della finanza matematica mondiale ha ricevuto il pollice verso dai baroni degli Stati Uniti. Ciò nonostante è diventato la C del modello CGMY che rappresenta il nuovo “paradigma” della finanza matematica. Ricordiamo che anche il “paradigma” precedente, dovuto a Black & Scholes, venne pubblicato nel 1973 sotto la pressione, se non raccomandazione, di un vecchio barone vero, di nome Merton Miller.

Quindi in Italia non si fanno ricercatori di tipo B, perché, come si dice: solo se uno non fa cavolate dopo non diventa professore associato. E allora, perché non farlo direttamente associato, o perché non farlo di tipo A, che non implica promesse future? Insomma, non ci sono baroni che possono dire di no, anche su un giovane ricercatore proposto da loro. Come si dice: solo i cretini non cambiano idea. E i baroni nostrani hanno paura che cambiare idea possa nuocere alla loro reputazione.

Veniamo ora al reclutamento dei giovani. Poiché il fine di un barone è sviluppare la sua disciplina scientifica, quando decide il reclutamento valuta se il suo ambiente di ricerca è abbastanza diversificato, sia per provenienza meramente “geografica” o per qualche disciplina contigua. La preoccupazione di un barone non è assicurare la carriera ai suoi, ma attirare i migliori dalle altre scuole della sua stessa disciplina.

Un barone si preoccupa anche se nel suo ambiente di ricerca muore una disciplina che è importante per lo sviluppo della propria. Un esempio di questo secondo tipo, per me e penso per molti di quelli che come me si occupano di finanza quantitativa, è l’agonia della “probabilità” come disciplina autonoma, cannibalizzata dalla analisi matematica e dalla statistica metodologica. Per questo motivo, se fossi un barone (o se ne avessi i gradi), curerei la presenza di un gruppo di probabilisti “puri” nel mio ateneo.

In Italia invece, non solo non si cura nessuno delle discipline di base che muoiono, ma all’interno di ogni disciplina e addirittura di ogni dipartimento si sono curati di “promuovere” i propri giovani proteggendoli dalla concorrenza con ricercatori esterni. Ricordo che la legge prevedeva che almeno il 50% dei concorsi fossero aperti alla concorrenza esterna e almeno il 20% delle nuove risorse provenisse dall’esterno. La sensazione che si ha quando si parla di questo è che in molti atenei questi vincoli non siano stati rispettati. Dov’è la Corte dei Conti?

Come vi aspettate che sia la qualità media dei giovani in questo mondo di abusi e di incesti intellettuali? Pare naturale che i migliori se ne vadano, e che quelli che restano non abbiano la forza di diventare capi-branco, fin quando il capo-branco stesso non va in pensione. Ricordo una frase di un barone nostrano, in una lettera inviata a seguito di un ricorso, in solidarietà con la commissione. A un certo punto diceva più o meno: “quanto erano migliori i tempi quando i giovani aspettavano in silenzio il tempo della loro maturazione scientifica”. Se vi dicessi il nome di questo barone nostrano, non direbbe niente a nessuno, neppure del suo settore scientifico. Ma in questa frase c’è il giovane che gli piace: somiglia più a un eunuco che a un gladiatore. E nel tono potete anche riconoscere il rimpianto della propria giovinezza.

Questo ambiente è alla radice della paura di esprimersi in autonomia da parte degli accademici che è stata analizzata con acume e coraggio da Andrea Mariuzzo nel suo intervento inaugurale su Gli Stati Generali. Alla sua osservazione aggiungo che la nostra pratica vergognosa dei concorsi interni danneggia anche i gladdiatori veri, che potrebbero vincere a mani basse sul campo, e invece sono costretti a vincere un concorso per eunuchi.

Nel reclutamento, il barone vero se ne frega degli “impact factor” e simili alchimie quantitative. Conosce il “paradigma” della sua disciplina e sa che i risultati pubblicati sulle riviste più importanti sono modificazioni periferiche del paradigma stesso. In certi casi, poi, se è davvero bravo, il barone riesce a intuire se un giovane ricercatore ha i numeri per poterlo un giorno modificare.  L’esperto di finanza quantitativa espulso dall’accademia americana di cui abbiamo parlato sopra, oggi nella sua qualità di barone della disciplina, seppure fuori dall’accademia, ha pubblicato un libro su articoli “classici” del settore, cioè articoli che l’hanno cambiato. Di questi 19 articoli, una decina sono nella sezione del libro intitolate “hidden gems” (gemme nascoste): articoli non pubblicati, o pubblicati su riviste di bassa categoria.

Guardate invece  la nostra valutazione della qualità della ricerca, ANVUR e VQR. Le “hidden gems” di cui sopra sarebbero valutate zero. Ricordiamo tutti lo scandalo di pretesi lavori di ricerca pubblicati su Yacht Capital, su Suinicoltura o su quotidiani. Questi avrebbero lo stesso valore delle gemme nascoste di cui sopra.

Ma sul VQR c’è di più. Un disonesto che segnala come lavoro di ricerca un pezzo scritto su un giornale ottiene valore zero. Un onesto che, non avendo la capacità o il tempo di fare ricerca, non presenta niente, riceve una penalizzazione di un punto per ogni lavoro non presentato. In pratica, la VQR premia chi spreca il tempo a scrive minchiate che valgono zero e penalizza chi, non avendo niente da dire in ricerca, non cerca alibi e si dedica alla didattica. E c’è un ulteriore follia, che deriva da questa regola senza senso. Poiché alla fine la penalizzazione arriva al gruppo, chi è produttivo mette la firma degli improduttivi onesti, sulle pubblicazioni più scarse, per evitare che la loro penalizzazione individuale si estenda al gruppo. Perché c’è un’altra idiozia nel modo in cui la VQR è strutturata. Se io ho sessanta pubblicazioni, ne devo presentare tre, e non c’è modo che questo controbilanci gli improduttivi del gruppo.

In conclusione, rimettere in piedi l’università italiana non è facile, perché i baroni veri non nascono sotto i cavoli. E i baroni nostrani, quelli che della disciplina conoscono il giusto e che passano il loro tempo a marcare il territorio, si riproducono ammettendo nel branco individui simili a loro. E quello che abbiamo visto oggi è una massiccia immissione di giovani, di fatto “ope legis”, come “ope legis” sono entrati in gran parte gli anziani che se ne stanno per andare in pensione.

Azzerare tutto, come ha proposto Jacopo Tondelli, sarebbe l’ideale, ma dovremmo comunque aspettare venti anni perché nascano baroni veri. Ed è utopia: non riusciamo neppure a spostare un docente da un corso a un altro, o da una sede a un’altra. Figuriamoci se riusciremo mai a licenziare qualcuno. Nel frattempo, però si potrebbero forgiare gli organi di controllo dell’università. Avete mai sentito di un consiglio di amministrazione che sia stato ritenuto responsabile di qualcosa? Cominciamo ora. Si facciano i conti di chi ha rispettato le regole del 50% dei concorsi aperti e del 20% delle risorse esterne, e per chi non è in regola, si proceda per danno erariale comtro il consiglio di amministrazione. E il danno sia il valore attuale del costo della carriera di chi ha avuto un concorso del tipo: “ti piace vincere facile”, mentre avrebbe dovuto sostenere un concorso aperto. E, ovviamente, si elimini la convenienza, e la possibilità stessa, di fare concorsi riservati.

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