Lavoro
Lo sciopero del carrello e l’utopia del consumatore solidale
Sabato 7 novembre è andata in scena, nel nostro paese, una protesta sindacale non priva di elementi di originalità. Lo sciopero dei dipendenti della grande distribuzione privata e cooperativa, privi di contratto da più di due anni, ha visto le federazioni di categoria di Cgil, Cisl e Uil dare al conflitto una veste davvero innovativa.
L’hashtag prescelto #FuoriTutti è stato per tutta la mattinata fra i trend topic su Twitter a dimostrazione di come la favoletta renziana del gettone messo a forza nell’i-Phone e annessa incapacità del sindacato di maneggiare la modernità, siano finalmente in via di superamento.
L’investimento sulle nuove forme di comunicazione a partire dai social media, comincia ad entrare a pieno titolo fra gli strumenti di proselitismo delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori ed è un bene, per non dire una questione di sopravvivenza.
La mobilitazione ha colpito grandi gruppi quali Ikea, Carrefour, Coin e Auchan, tutti militanti in Federdistribuzione, associazione fuoriuscita da Confcommercio e che negli ultimi tempi sta impersonando il ruolo del padronato 2.0.
Se un tempo infatti lavorare in un ipermercato poteva apparire una valida alternativa alla fabbrica, da almeno un quinquennio non è più così: part time subiti e non scelti, lavoro obbligato nelle domeniche e festivi ed ora anche la notte, turni impossibili, hanno trasformato la professione del commesso in lavoro precario, duro, scarsamente retribuito.
I centri commerciali si affacciano pertanto alla ribalta del conflitto sociale in tutta la loro ambiguità di “non luoghi”, dove tra vetrine e luci artificiali lo sfruttamento della forza lavoro inizia ad essere una sinistra costante.
A ciò si è aggiunta la crisi dei consumi che ha spinto queste imprese a perseguire l’obbiettivo di azzerare le relazioni industriali attraverso la disdetta degli accordi integrativi: la vertenza Ikea ha rappresentato l’ultimo caso in ordine di tempo di questo trend e forse anche il più significativo.
Il colosso svedese del mobile infatti si era sempre distinto per l’intensità con cui viveva il rapporto col sindacato promuovendo a tutti i livelli valori quali partecipazione e condivisione.
Un anno fa ha deciso di convertirsi al “verbo federdistirbutivo” cancellando, con un violento colpo di spugna, 25 anni di accordi.
Se queste realtà assomigliano sempre più ai tradizionali siti manifatturieri, se in sostanza fra le condizioni di una cassiera di Carrefour è quelle di una turnista della Magneti Marelli, esistono sempre più punti di contatto, alcune significative differenze permangono.
Lo sciopero di oggi ha provocato danno al profitto delle imprese colpendo la fonte tradizionale della loro redditività: i clienti.
Si tratta di un disagio molto diverso quindi, da una catena di montaggio che si interrompe, da un numero di pezzi che non vengono assemblati, o da tir che rimangono fermi nei piazzali di un magazzino.
Anche in questo caso il sindacato ha marcato un ulteriore elemento di vivacità strategica: ha coinvolto le potenziali vittime degli effetti della sua mobilitazione non solo appellandosi alla loro solidarietà, ma chiedendo loro di astenersi dal fare la spesa, scioperando cioè a loro volta.
Lo sciopero del carrello è stata sicuramente una mossa brillante e non priva di temerarietà.
È acclarato che, più della arroganza datoriale, il peggior nemico di un lavoratore della grande distribuzione è, almeno sulla carta, proprio il “gentile cliente”, lo stesso cliente che pretende di comprare il deodorante alle tre del mattino e che spesso ritiene immancabile l’appuntamento con lo shopping anche il giorno di Ferragosto, perché lui ha tempo da perdere e poco importa se quel tempo è tempo rubato alla vita di relazione di altri suoi simili.
Il tentativo di creare pertanto una insolita alleanza chiedendo ai consumatori di rinunciare a qualcosa (la spesa) mentre gli addetti rinunciavano ad una giornata di salario, risulta essere un esperimento di solidarietà fra opposte istanze non privo di una valenza sociale formativa.
Al centro di questo insolito legame c’è infatti il consumo, o meglio, una certa idea di consumo come disvalore da provare a combattere e superare.
La giornata di mobilitazione di oggi ci consegna, oltre al merito di una vertenza sindacale importante, un segnale positivo per chi crede che una società di valori possa ancora affermarsi oltre e a dispetto di un modello, purtroppo ancora fortemente maggioritario che vede nel “consumo ergo sum” il suo principio immanente.
Il 19 dicembre si replica e sarà davvero curioso osservare se la esosa frenesia di un sabato prenatalizio incapperà in una nuova battuta d’arresto capace di divenire occasione di riflessione collettiva sul chi siamo quando per nostra scelta smettiamo, per un giorno almeno, di spendere.
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