Lavoro
L’Italia non è l’Austria né la Svezia, perciò ha bisogno del salario minimo
Risposta a “Cosa penso del salario minimo UE” di G. Cazzola
Nel suo editoriale su Startmag del 27 dicembre Giuliano Cazzola ritorna ancora una volta sulla polemica contro quello che definisce il “capestro del salario minimo”, riproponendo alcune delle argomentazioni ricorrenti della vulgata liberista contro questo istituto. Sul fatto che il salario minimo legale sarebbe una “scorciatoia” e che la via maestra invece passerebbe attraverso un intervento su cuneo fiscale e produttività, come hanno sostenuto Francesco Seghezzi e Michele Tiraboschi sul Sole24Ore del 27 novembre, abbiamo già risposto, sempre sul Sole24ore, il 2 dicembre. Cazzola però fa ricorso anche a un altro tema che merita una risposta e cioè che in Italia il salario minimo sarebbe superfluo perché la contrattazione collettiva già garantisce minimi retributivi adeguati, il che spiegherebbe, come osserva Silvia Spattini sul bollettino Adapt 34/2020, che “i paesi in cui è presente un salario minimo legale, tranne pochissime eccezioni (Belgio e Francia), hanno una copertura della contrattazione inferiore all’80% dei lavoratori; al contrario i paesi privi di un salario minimo legale presentano tassi di copertura superiori all’80% (tranne Cipro)”.
Cazzola dimentica di chiedersi come mai l’Italia, pur essendo uno dei paesi con una copertura contrattuale più alta in Europa, sia anche uno tra i paesi con una dinamica salariale peggiore. E’ una constatazione confermata di recente da due autorevoli rapporti, uno dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e uno della Confederazione Europea dei Sindacati. Secondo il primo, Global Wages 2020, tra il 2008 e il 2019 nelle maggiori economie i salari italiani, britannici e giapponesi sono i soli a essere scesi e anche la crescita delle retribuzioni dell’ultimo biennio, apparentemente in controtendenza, più che da effettivi incrementi salariali è derivata dalla massiccia espulsione di lavoratori a basso reddito. Secondo Benchmarking Working Europe invece in Italia dal 2010 al 2019 i working poor sono saliti dal 9,5% al 12,2% (+28%).
La CES inoltre, analizzando i minimi contrattuali nei paesi dove non c’è un salario minimo legale e i minimi sono fissati esclusivamente dalla contrattazione collettiva, è giunta alla conclusione che “negli Stati nordeuropei Danimarca, Finlandia e Svezia i salari più bassi fissati dalla contrattazione nei tradizionali settori a bassa retribuzione come parrucchieri, pulizie e accoglienza sono compresi tra i 10 e i 12 euro l’ora. In Austria siamo di poco sotto ai 9 euro (10,40 se teniamo conto delle due mensilità aggiuntive). In Italia siamo tra i 6 e i 7 euro e a Cipro in alcuni settori tra i 4,50 e i 5,50”. In sostanza i salari italiani sono più vicini a quelli di Cipro che a quelli austriaci e scandinavi. L’OIL inoltre ha simulato i potenziali effetti (a) della piena applicazione del salario minimo a tutti i lavoratori di un paese e (b) questa prima condizione più l’innalzamento del salario minimo fino al 67% del salario mediano (Fig. 11.1). In ambo i casi l’Italia si avvantaggerebbe più degli altri paesi europei privi di salario minimo in termini di riduzione delle diseguaglianze (indici Palma e Gini).
Questi dati ci spingono a chiederci se l’assimilazione dell’Italia ai paesi europei che “non hanno bisogno del salario minimo legale perché hanno un’alta copertura contrattuale” (Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia) non sia frutto di una lettura volutamente parziale dei dati. Il rapporto Negotiating Our Way Up. Collective Bargaining in a changing world of work (OCSE, 2019) contiene un paragrafo intitolato How do national collective bargaining systems compare? (come si confrontano i sistemi contrattuali nazionali?). La risposta si trova in una tabella (riprodotta qui sotto), che Cazzola e i suoi colleghi della Fondazione Adapt farebbero bene a studiarsi bene, in cui il confronto viene fatto analizzando non uno ma cinque indicatori: la coordinazione, cioè la capacità della contrattazione collettiva di difendere il potere d’acquisto dei salari dall’inflazione e assicurare una ‘equilibrata partecipazione’ ai benefici economici degli aumenti di produttività; la densità sindacale nel settore privato; la densità dell’adesione alle organizzazioni datoriali; la copertura contrattuale e la qualità delle relazioni sindacali.
Se consideriamo tutti questi indicatori nei paesi dell’Unione privi di salario minimo (in giallo), tralasciando Cipro, vedremo che:
– l’Italia è l’unico paese in cui la coordinazione è bassa, in tutti gli altri è alta;
– Italia e Austria hanno una bassa densità sindacale nel settore privato (20%-30%), mentre negli altri tre paesi è compresa tra il 50% e il 70%;
– Italia, Finlandia e Danimarca hanno una densità dell’adesione alle organizzazioni datoriali del 60%-70%, mentre in Svezia siamo all’80%-90% e in Austria oltre il 90%;
– la copertura contrattuale in Italia, Finlandia e Danimarca è all’80%-90%, ma in Austria e Svezia è superiore al 90%
– infine la qualità delle relazioni sindacali in Italia è giudicata dall’OCSE bassa, in Finlandia media, negli altri tre paesi alta.
Tornando ai dati della CES, inoltre, possiamo aggiungere che mentre in Italia dal 2010 al 2019 i working poor sono passati dal 9,5% al 12,2%, in Svezia, Austria e Danimarca sono rimasti sostanzialmente stabili, mentre in Finlandia sono addirittura scesi dal 3,7% al 2,9% e in tutti i paesi col salario minimo per legge la variazione è stata più contenuta tranne che in Gran Bretagna e in Ungheria.
Questo ci porta a dire che l’Italia, col suo sistema produttivo segnato dall’ipertrofia della piccola impresa e dal crescente fenomeno dei contratti-pirata, in realtà rappresenta la cenerentola dei paesi europei privi di salario minimo e proprio per questo dovrebbe introdurlo prima di allinearsi del tutto e definitivamente a Cipro. Ignorare il baratro che separa l’Italia da paesi come Austria e Svezia appigliandosi all’unico indicatore favorevole alle proprie tesi significa fare propaganda invece che scienza economica.
Insieme a esponenti sindacali, semplici lavoratori, attivisti di varie associazioni e movimenti abbiamo lanciato “Salario Minimo anche in Italia” per chiedere alla politica, che da due anni parla di salario minimo, di agire presto e bene, visti gli ulteriori colpi che la pandemia ha inflitto al mondo del lavoro, convinti anche che la questione salariale vada affrontata nella sua complessità. La formula che abbiamo adottato, 9/90/90, sintetizza una proposta in tre punti, su cui stiamo raccogliendo adesioni, rivolta alla politica e al sindacato. Chiediamo
– un salario minimo orario (tabellare) di 9 euro lordi per legge da rivalutare periodicamente mediante trattativa tra le parti sociali.
– cassa integrazione al 90% del salario senza massimali
– NASPI al 90% del reddito medio degli ultimi 4 anni senza massimali né decurtazioni progressive.
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“Salario Minimo anche in Italia” è su FB: https://www.facebook.com/SalarioMinimoancheinItalia
Per contatti: salariominimoitalia@gmail.com
Per adesioni: https://forms.gle/73LoNbBLoBax3ddQA
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