Benessere
L’Ilva e la salute degli operai: gli stessi obblighi dello stato con i carcerati
L’idea che esista in natura qualcosa di più importante e primario della vita umana, traducendolo in quell’espressione protetta dalla Costituzione che è il diritto alla salute, sembra oggi in discussione per via di un altro principio sacro sancito dalla nostra Carta, che è il diritto all’attività economica. In questa strettoia, è in atto un furioso corpo a corpo tra magistratura e governo a proposito dell’Ilva: da una parte la decisione dei giudici di chiudere l’impianto, dall’altra la risposta dell’esecutivo che con vari decreti ha deciso di tenere viva l’acciaieria. Non sembra, al momento, esserci una terza via e dunque un virtuoso punto di sintesi, seppure la Consulta induca le parti a identificarne i tratti. Se poi anche i giornaloni della famosa (buona?) borghesia soffiano tutti da una parte, difendendo interessi legittimi, è chiaro che la situazione è totalmente sbilanciata. Perché non sono e non potranno mai essere i giudici i custodi delle nostre vite, della salute degli operai, quando interviene la legge probabilmente il peggio è già accaduto. Semmai quest’opera fondativa di prevenzione toccherebbe ai governi con buone, attente, e inequivocabili leggi. Ma il governo, questo governo come peraltro i precedenti, sembra avere fatto la sua scelta.
C’è un’insensibilità che colpisce. E non vi appaia sacrilego l’accostamento a quel detto popolare che si interroga se sia nato prima l’uovo o la gallina. Se cioè il diritto alla salute discenda da un’attività economica, che dà lavoro, muove vite e famiglie, fa nascere bambini, contribuisce insomma allo sviluppo sociale di un Paese, o se sia inequivocabilmente primario il nostro stato di salute (sì, anche quella mentale), così da essere restituiti alla vita – il giorno che dovessimo andare in pensione – ancora con una salute accettabile, pur con tutti gli acciacchi dell’età. Dev’essere sancito anche per le aziende, nel loro rapporto con i dipendenti, il patto che nelle democrazie avanzate si stipula tra lo Stato e quei cittadini che, infrangendo la legge, perdono momentaneamente la libertà personale. Bene, nel momento della “consegna” alle carceri, lo stato diventa tutore e responsabile del «benessere» del singolo individuo e di tutto quanto potrà accadergli (i casi Cucchi e molti altri fanno da testimone). Tutto ciò dovrà accadere anche nel rapporto tra azienda e operai, facendo parte di un chiarissimo codice deontologico.
Non è sopportabile per un Paese appena civile il riconoscimento di una ragione a distanza di quaranta/cinquant’anni dai fatti. Eppure è esattamente ciò che è accaduto spesso in Italia, per esempio appena qualche giorno fa con la condanna (in primo grado!) per “omicidio colposo” degli ex dirigenti Pirelli in relazione a 24 casi di operai morti con varie forme tumorali causate da esposizione all’amianto. Chi può compiacersi per avere avuto giustizia con un ritardo di questa enormità, giusto qualche operaio scampato all’epoca e ormai vecchietto e i figli e i nipoti dei poveri morti. È in questa bolla temporale, che nel caso italiano si estende sino al mezzo secolo, che nel frattempo il progresso scientifico ha fatto ovviamente passi da gigante e ha messo a disposizione della società sistemi molto più sofisticati per l’identificazione, sempre meno approssimativa, di quel collegamento maligno tra le condizioni di vita in fabbrica ed emersione di patologie tumorali.
E aleggia anche un sospetto terribile, questo più di carattere psicologico che scientifico. Che siano in molti a giocare sulle fragilità degli operai, considerandoli come soggetto debole, estremamente debole, non soltanto come categoria non più protetta dai sindacati di un tempo, ma soprattutto per via di quel tormento pervasivo che alimenta le loro vite, divise tra la necessità di un lavoro, del “loro” lavoro, e quindi persino attaccati morbosamente alla loro fabbrica, e la consapevolezza interiore che in quel contesto malsano piano piano potrebbe spegnersi la loro salute.
Ne parla con parole struggenti Ermanno Rea al Corriere, che all’Italsider di Bagnoli, nell’88 diventata Ilva, dedicò «La dismissione», uno dei suoi bellissimi libri. Rea descrive perfettamente l’evoluzione di quel tormento: «Eravamo consapevoli dei danni al paesaggio e all’ambiente che causava, ma ritenevamo necessario quel tipo di sviluppo. Per noi quella fabbrica era oggetto di venerazione. Non solo, l’Ilva era anche una scuola di vita. Mentre Napoli era una città affamata e piena di problemi, il quartiere di Bagnoli viveva una storia a sé, le donne uscivano di casa e lasciavano le porte aperte, una zona indenne dalla criminalità».
È di questa evoluzione del tempo che stiamo parlando – dall’orgoglio di essere parte di una fabbrica pur intuendone vagamente i possibili danni, alla necessità di condividere quei danni ormai accertati dalla scienza solo per un fatto di sopravvivenza. In questo mezzo secolo, come la storia ci ricorda spesso, gli operai non ci hanno guadagnato.
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