Lavoro
Le Ragazze di Anna Granata: libere dal portafoglio e dal tabù del cambiamento
Professoressa associata di Pedagogia nel Dipartimento di Scienze umane dell’Università di Milano-Bicocca, Anna Granata con Ragazze col portafogli (Carocci) propone una pedagogia dell’emancipazione femminile. Quali sono infatti gli spazi che possono essere presi oggi dalle donne, anche nel mercato del lavoro, infrangendo quel vecchio modello di società che le obbligava al sorriso e alla prudenza? Pubblichiamo un estratto del libro, ringraziando l’Editore per la disponibilità.
Caratteristica di un’età adulta matura ed equilibrata, secondo Sigmund Freud, è «lavorare ed amare». Ma il grande psicanalista non ha mai detto che si debba scegliere un solo lavoro e un solo legame per tutta la vita. Partiamo dalla dimensione lavorativa, centrale nella vita adulta di ogni donna. Michelle Obama durante un’intervista ha dichiarato che una delle domande più sbagliate che poniamo ai bambini e alle bambine è: quale lavoro vuoi fare da grande? Insita nel quesito stesso è l’idea che i bambini debbano scegliere, fin da piccoli, una sola strada, un solo percorso. Magari quello che risponde alle aspettative dei genitori, in base al genere e allo status socio-economico della famiglia. Nascosta nella domanda è anche l’idea che il mestiere che scegli sarà lo stesso per tutta la vita. C’è una concezione molto novecentesca del lavoro e anche molto circoscritta a paesi nei quali la mobilità lavorativa è di fatto ostacolata.
Nei paesi del Nord Europa frequentare più di un corso di laurea contemporaneamente, cambiare mestiere ogni quattro/cinque anni, assumere ruoli anche molto diversi all’interno di un’organizzazione è considerato normale. Da noi, solo di recente, a seguito della pandemia e del fenomeno delle grandi dimissioni, si è cominciato a pensare, specialmente nelle città del Nord, che interrompere un contratto di lavoro, sviluppare nuove competenze, cambiare radicalmente contesto di vita e di lavoro sia possibile e auspicabile. È così che assistiamo al ritorno al lavoro agricolo da parte di giovani che hanno studiato per lavorare in azienda, come al trasformare una passione – che sia uno sport o un’attività artigianale – nel proprio lavoro, non senza ostacoli e fatiche dettate anche dalle condizioni rigide e altamente burocratizzate del lavoro in Italia.
Nel gennaio del 2023 Jacinda Ardern ha lasciato il suo incarico da primo ministro della Nuova Zelanda: il giorno dopo ha dichiarato di aver dormito bene per la prima volta dopo molto tempo. Nel febbraio dello stesso anno si è dimessa anche Nicola Sturgeon, premier scozzese, che ha comunicato pubblicamente di essere una donna politica ma anche un essere umano. Poi è stata la volta di Susan Wojcicki, la Ceo di Youtube, che si è aggiunta a una lunga lista di donne della Silicon Valley: Meg Whitman, amministratrice delegata di Hewlett-Packard, Marissa Mayer, Ceo di Yahoo. Con voci diverse, donne diverse hanno spiegato che ricoprire ruoli di quel tipo è possibile solo per un periodo limitato della vita, non per sempre. Dagli Stati Uniti all’India, dalla Cina al Regno Unito si assiste a un movimento di donne esposte pubblicamente che hanno deciso di cambiare vita non come atto di rinuncia ma come atto di libertà.
Nessuna di loro diventerà casalinga, ma ognuna troverà un nuovo stile di vita, attraverso il quale valorizzare talenti e aspirazioni, senza perdere equilibrio e salute. La maggior parte dei giovani e delle donne, protagonisti del fenomeno delle grandi dimissioni, cambia lavoro non tanto perché le condizioni contrattuali o finanziarie non siano favorevoli, ma perché desiderano cambiare vita, spiega Francesca Coin (Le grandi dimissioni, Einaudi, 2023).
Desiderano riappropriarsi di tempi e dimensioni di vita che i ritmi intensi e vincolanti del lavoro hanno costretto a sacrificare. Padri o madri che vogliono più tempo da dedicare ai propri figli, ancora bambini; giovani laureati che non vogliono spendere la propria vita dietro una scrivania o lo schermo di un computer senza comprendere il senso del proprio lavoro; donne e uomini che vogliono cambiare contesto di vita e stare a contatto con la natura; cape di governo o amministratrici delegate che non vogliono sacrificare tutta la loro vita a un incarico politico; sportivi e sportive che, a un certo punto della competizione, preferiscono prendersi cura della propria salute fisica e mentale.
Se le motivazioni sembrano più che ragionevoli e il cambiamento auspicabile, è ancora diffusa oggi l’idea che lasciare una strada vecchia per una nuova e sconosciuta sia pericoloso e sconsigliabile. Abbiamo persino un noto proverbio che ci comunica questa idea. Una logica simile attraversa l’esperienza scolastica di ragazzi e adolescenti. Anche quando inseriti in contesti segnati da culture affettive negative se non tossiche, le famiglie decidono quasi sempre di lasciarli nel contesto noto piuttosto che sperimentare una nuova scuola. A vivere qualche forma di mobilità scolastica sono quasi solo gli alunni e studenti migranti, con famiglie che per necessità cambiano contesto di vita e lavoro: agli occhi degli insegnanti il bambino o ragazzo immigrato, che cambia città o luogo di vita, è necessariamente in difetto e avrà una vita scolastica non facile, indipendentemente dalle sue capacità e competenze.
D’altra parte, le nostre ragazze in particolare ricevono un messaggio educativo dirompente: se cambi corso di studi stai perdendo tempo, se lasci quel fidanzato rischi di non trovarne un altro. È in questo modo che miniamo alla base la loro spontanea spinta verso la crescita e il cambiamento di vita, così come la possibilità di realizzare le loro aspirazioni. I docenti universitari, della cui categoria faccio parte, non sono immuni da dinamiche di questo tipo. La mobilità tra un ateneo e un altro è fortemente ostacolata, anche quando vi siano ragioni affettive o di interessi scientifici. La normativa ministeriale prevede che i docenti possano fare cambio di sede, a parità di ruolo e posizione, senza costi per gli atenei. Tuttavia, i docenti universitari devono intercettarsi, spesso in maniera anonima, attraverso gruppi presenti sui social media e, anche quando trovano un collega disponibile allo scambio, molti sono gli ostacoli da superare per ottenerlo. Muoversi è considerato sconveniente, cambiare sede di lavoro per vivere vicino ai propri affetti (o, a volte, per allontanarsi da legami negativi) è un’esigenza poco compresa dall’Accademia.
Accade così che due giovani docenti fuori sede, con un bambino piccolo, non ottengano la possibilità di lavorare presso lo stesso ateneo, conciliando cura e lavoro. Accade che una ricercatrice con problemi di salute fatichi a spostarsi presso un ateneo più piccolo e vicino ai suoi affetti, restando vincolata a treni e affitti temporanei. Solo in pochi fortunati casi il risultato è diverso, si comincia una nuova vita presso una nuova sede, ci si rimette in gioco, si azzerano rapporti e relazioni di lavoro, con beneficio per il benessere personale e le opportunità di scambio culturale, gestendo con ironia la frase «tu sei l’ultima arrivata» che accompagna per tempi infiniti le docenti trasferite.
Essere messe nelle condizioni di poter scegliere e decidere per il proprio futuro, così come di poter cambiare in ogni fase della vita, è la premessa damentale per essere persone libere. La dimensione economica ha un peso notevole in questa dinamica: è grazie ai soldi che noi possiamo intraprendere un’iniziativa, realizzare un progetto, decidere in qualsiasi momento di cambiare casa o lavoro, liberarci da relazioni malsane, intraprendere una nuova vita. In caso contrario, non abbiamo scelta.
La libertà dipende da cose materiali, diceva Virginia Woolf nel suo Una stanza tutta per sé, edito per la prima volta nel 1929. «E le donne sono sempre state povere, non solo in questi ultimi duecento anni ma dall’inizio dei tempi. Le donne hanno avuto meno libertà intellettuale dei figli degli schiavi ateniesi. […]. Per questo ho insistito tanto sul denaro e sulla stanza tutta per sé» (Woolf, 2006, p. 199). Contrastare la disparità economica tra uomini e donne è fondamentale per restituire libertà, iniziativa e potere a metà del genere umano. Abbiamo bisogno di donne, ragazze, professioniste, ministre “col portafogli”.
La parola-chiave di questo libro, tuttavia, non è portafogli ma capacità, che nelle parole di Martha Nussbaum (2001) rappresenta l’espressione più alta della dignità di ogni persona. “Tu sei capace” è il messaggio più forte che possiamo comunicare alle nostre ragazze, quando escono dall’infanzia e si proiettano su un futuro tutto aperto: sei capace di scegliere per te, sei capace di inventarti un futuro, sei capace di fare qualsiasi cosa, sei capace di cambiare il mondo. Il dono del primo portafogli comunica loro più di tante parole un senso di fiducia nelle proprie possibilità.
È da quel momento, però, che dobbiamo essere disposti ad accettare la loro libera scelta e iniziativa, a volte del tutto distante dalle nostre aspettative di madri, nonne, zie, madrine, insegnanti e educatrici.
Ci si aspetta ancora diffusamente che una ragazza si sposi, metta al mondo dei figli, si realizzi professionalmente nel campo per il quale abbiamo finanziato gli studi, che si dedichi a hobby e attività coltivate in famiglia, che pensi a tutelarsi e assicurarsi, che organizzi per tempo la sua pensione. Sono questi i temi fondamentali anche delle diffuse e fondamentali iniziative di educazione economico-finanziaria promosse da vari enti e associazioni.
Ma è davvero questo l’ultimo messaggio educativo per le nostre ragazze? È un portafogli sempre pieno, il nostro obiettivo? La trentenne Marlene Engelhorn, ereditiera dell’impero della chimica Basf, ha ricevuto in eredità venticinque milioni di euro. Senza averli guadagnati, se li è ritrovati interamente a disposizione per realizzare tutto ciò che desiderava, inclusa la possibilità di non lavorare per tutta la vita. Nessuna tassa è prevista dal suo paese per chi disponga di una simile fortuna. Eppure la sua scelta è andata in tutt’altra direzione: ha deciso di istituire un consiglio composto da cinquanta suoi concittadini, scelti a sorte, affidando loro il compito di decidere come ridistribuire quella fortuna per il bene di tutti.
Un gesto dirompente e a tratti folle, senza dubbio generoso, che ci ricorda che il portafogli è sempre un mezzo e mai un fine. I soldi che abbiamo non definiscono in alcun modo il nostro valore. Siamo persone che valgono indipendentemente dai beni dei quali dispongono. Siamo libere: anche dal portafogli!
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