Lavoro
Non c’è futuro per una ripresa basata sullo sfruttamento del lavoro
“I giovani non hanno voglia di lavorare e di sporcarsi le mani”.
Corsi e ricorsi della storia che nemmeno la pandemia ha cambiato. Un tempo erano i giovani “choosy” della Ministra Fornero, poi è stata la volta delle casse di frutta da scaricare ai mercati dell’allora Ministro Poletti, adesso pare che il problema del lavoro in Italia sia rappresentato dai giovani e meno giovani che, impigriti dal reddito di cittadinanza, rifiutano offerte di lavoro stagionali come camerieri, baristi, personale alberghiero. Le imprese denunciano la crisi del personale, i giornali rilanciano, complici anche alcuni politici amanti della performance che cavalcano l’onda della polemica anti-lazzaroni. Eppure nei lunghi mesi di lock down e in questo ormai quasi consueto scenario di convivenza con il virus sembrava che gli italiani tenessero al lavoro, che anzi rivendicassero il diritto a poterlo esercitare, chiedendo allentamenti delle restrizioni, maggiori tutele per chi dava garanzie di poter portare avanti la sua professione in sicurezza.
Verrebbe da pensare che l’Italia sia stata colpita da una sindrome di dissociazione generalizzata. Gli italiani chiedono di lavorare e poi, al momento delle riaperture, preferiscono vivere di sussidi?
Cosa sta succedendo in Italia, ma soprattutto di cosa parliamo quando parliamo di reddito di cittadinanza?
Per prima cosa occorre fare un po’ di chiarezza, per non finire nel gorgo della chiacchiera da bar, la stessa che attribuisce lussuose somme giornaliere elargite ai richiedenti asilo ospitati nel nostro paese.
In Italia una persona che vive da sola e si trova in stato di inoccupazione (attenzione, da non confondersi con chi percepisce il sussidio di disoccupazione), può fare richiesta di reddito di cittadinanza e ricevere fino a 780 euro al mese, che diventano 1.330 per una famiglia adulta con figlio maggiorenne o due minorenni. Sottolineiamo da subito il “fino a”: le cifre infatti rappresentano la somma massima erogabile, a seconda di una serie di parametri. Ciò significa che non tutti i richiedenti percepiscono questa quota massima, ma la somma potrebbe assestarsi su una soglia più bassa.
Chi percepisce il reddito di cittadinanza deve rendersi disponibile da subito ad accettare offerte di lavoro che pervengano dal centro per l’impiego, clausola presente anche per l’indennità di disoccupazione. Questo elemento non è da trascurare, perché il passaggio dai centri per l’impiego implica, quantomeno, la regolarità di proposta nel contratto di lavoro e un’offerta rispondente alle effettive competenze del lavoratore. Che non sempre è choosy e spesso infatti indica la propria disponibilità in settori anche non di stretta attinenza con il suo percorso formativo.
L’elemento della regolarità, nel nostro paese, non è cosa da poco. In Italia infatti il 4,5% del Pil è prodotto da lavoro in nero, che si aggira intorno al 17% nel settore del commercio (ben 60% per quanto riguarda il lavoro domestico). Un sommerso privo di garanzie, sia nell’immediato – malattia, infortunio, ferie, permessi di cura, giornate di riposo – sia in futuro, data l’assenza di tutele contributive. Il passaggio dunque dai centri per l’impiego non è “ozioso”, ma legato a un più attento controllo rispetto a offerte di lavoro non sempre rispondenti ai criteri di legalità che dovrebbero essere previsti.
Segue poi il tema – non da poco – della retribuzione. Inutile nascondersi dietro a un dito: dalle aziende alla costante ricerca di stagisti con esperienza pluriennale alle spalle, compensati con un simbolico rimborso spese, i buoni pasto e la speranza di una “possibile collaborazione futura”, ai contratti da custode utilizzati per categorie professionali “di concetto”, per arrivare infine ai lavori della ristorazione, dove spesso lo stipendio per un’occupazione full time non raggiunge i mille euro mensili la situazione italiana non è affatto rosea.
Considerato che un lavoratore al quale viene proposto un compenso netto che si aggira intorno ai mille euro, sempre che sia correttamente contrattualizzato e con le dovute tutele, deve di norma affrontare alcune spese per poter svolgere il suo lavoro legate al trasporto, al pasto, a meno che non riesca a trovare impiego a una distanza percorribile a piedi da casa, e che può capitare che questo lavoratore o lavoratrice abbia una famiglia, un carico di cura che implica, in caso di impegno lavorativo, delle spese, come quelle di una babysitter negli orari di lavoro extrascolastici, il conto è presto fatto.
Lavorare a queste condizioni non è sostenibile e il lavoro diventa un costo per il lavoratore.
Se per alcuni giovanissimi questo tipo di esperienza “lavorativa” risulta la prassi per potersi fare un curriculum e quindi mettono in conto, sul budget familiare, la spesa di un affitto in carico ai genitori per almeno un paio d’anni dopo la laurea/diploma, in modo da potersi permettere di lavorare con uno stipendio non sostenibile per il costo della vita, questo investimento risulta impraticabile per tutta un’altra serie di lavoratori che, giustamente, vorrebbero potersi sostenere autonomamente.
Si pone dunque un tema, che il reddito di cittadinanza ha solo contribuito a far emergere, ovvero quello del salario minimo commisurato ai costi della vita. Possibile per un lavoratore percepire, per un lavoro – qualunque esso sia – che lo impiega per 8 ore al giorno 5 giorni la settimana, uno stipendio che non gli consente di pagare affitto, spese e mantenimento?
La risposta condiziona e condizionerà la situazione economica del paese nei prossimi anni, nel momento in cui generazioni che non hanno conosciuto le tutele di contratti di lavoro nazionali in grado, quantomeno, di garantire una buona sopravvivenza dei lavoratori, non saranno in grado a loro volta di investire non solo nel loro futuro, ma nemmeno nel loro presente. Se le persone non hanno potere di spesa la produzione ne risente in tutte le sue sfaccettature.
Limitarsi a criticare gli sfaticati del reddito di cittadinanza, senza porsi il problema del perché di una scelta al ribasso (780 euro al mese, anche se percepiti in toto non consentono la sussistenza a meno che non si verifichino altre condizioni, come la casa di proprietà e/o un aiuto esterno) significa condannare il paese alla stagnazione e a un futuro di poca prospettiva.
Oltre che a un presente nel quale lo Stato e, ancora di più, il welfare familiare (finché dura) deve costantemente compensare le scelte miopi di un mercato del lavoro basato sull’idea di sfruttamento e non di vera crescita e sviluppo.
Ph. Pix4Free.org
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