Lavoro
Lavoro, solitudine e felicità. Una storia da raccontare
Il lavoro non è più quello spazio definito che nel Novecento si rappresentava nel cosiddetto orario che concretamente e anche simbolicamente aveva il suo elemento cardine nel cartellino: la timbratura in entrata e in uscita. Poi per il resto si era liberi o almeno così poteva apparire. Chiaramente le cose erano più complesse, ma il segno dei tempi stava lì, in quel gesto e in quella parentesi che occupava la parte centrale della giornata. Oggi il lavoro si è sciolto confondendosi con il tempo libero e le abilità richieste non rappresentano più solo un fare le cose, ma un essere nelle cose, stare nelle cose.
Non esiste più un lavoro per tutta la vita perché è sufficiente che esista una vita in una logica in cui produzione e consumo si alimentano vicendevolmente definendo una dinamica spazio tempo obbligata e quindi obbligatoria. Pensare di uscirne è quantomeno illusorio e parlare di dimissioni è come parlare di vacanze oggi che nemmeno Enrico Vanzina saprebbe cosa dirne.
Esiste invece un faticoso infinito e complesso inseguimento, quello verso la felicità. Un movimento caotico e tutto umano che porta con sé un necessario bagaglio di aspettative e ambizioni, di desideri e valutazioni. Una rincorsa che si compie sempre più in solitudine, una maratona senza alcun traguardo visibile generata da un’atomizzazione del lavoro che lascia soli e fragili i lavoratori. Indagare la solitudine significa oggi indagare la forma del lavoro, quella che colpisce l’individuo isolandolo dalla massa e soprattutto da un’idea di tempo e spazio comuni che siano condivisi e aspirazionali. All’interno di questo movimento è forse se non più facile, più evidente provare ad intercettare la forma istantanea di un lavoro ontologicamente in trasformazione ed elaborazione.
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Chiarito che avere o non avere un lavoro non diminuisce affatto il lavoro da sostenere quotidianamente, il fine settimana – che nel Novecento ha rappresentato per molti la pausa dal lavoro, mentre per molti altri un secondo lavoro -, viene così ridefinito come un tempo di riflessione su quella che è la natura del lavoro e del lavorare. Un prendere fiato mentre comunque si continua a fare altro, uno sguardo obliquo puntato verso l’orizzonte del fare.
Il lavoro dunque come strumento di felicità e come tale inevitabilmente anche del suo opposto.
Sul campo ci sono competenze, risorse, abilità, intuito, senso del ritmo e forma fisica, bellezza e attitudine. Tutto è chiamato alla battaglia, ma tutto va dosato, gestito e mai sprecato perché i rischi sono dietro l’angolo anche in un mondo che pare lontanissimo da ogni forma di etica e di qual si voglia morale. Il rischio più grande è quello di perdere se stessi ed è un rischio purtroppo alla portata di chiunque e ogni giorno che si stia in aeroporto in attesa di partire in business class per Dubai o semplicemente a pulirne i bagni. Le altezze possono essere diverse, ma la caduta non cambia.
Si noterà il nessun accenno alle nuove tecnologie, alla precarietà e alla temibilissima intelligenza artificiale, non è certo per assurda sottovalutazione e nemmeno per dichiarata scarsa competenza in materia. Del resto ogni paura porta con sé mostri figli di incomprensione e scarsa chiarezza sul tema. Ma qui si crede che in gioco ci sia prima di ogni altra cosa e anche per l’azione della tecnica, il corpo e nel corpo quel sentimento umanissimo (e umanistico) già ribadito che prende il nome di felicità.
Con l’aiuto di autrici e autori proveremo così a dare voce e spazio ad analisi e storie, a teorie e a pratiche, al senso di un lavoro e alla ricerca di una felicità ostinata e consapevole per quanto sempre illusoria e sempre da ricostruire. Porta itineris dicitur longissima esse.
(foto di copertina: Noah Silliman, Unsplash)
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