Benessere
Lavoro decente e lavori ibridi: una road map
Sugli effetti della digitalizzazione dei processi produttivi (Industria 4.0) e del lavoro (Lavoro 4.0) ci sono pareri molti diversi.
Per alcuni, la digitalizzazione porterà alla balcanizzazione del mercato del lavoro con effetti peggiorativi per il sistema nel suo complesso. Per altri, si realizzerà una doppia polarizzazione: la prima sarà «tra chi sa e chi non sa» e premierà i primi; la seconda, sarà «tra chi ha la vita davanti a sé e chi è (quasi) a fine carriera» e lascerà i secondi al loro destino.
Tutti concordano su un punto: la nostra società potrà beneficiare degli effetti delle innovazioni sempre più rapide in corso se saprà accompagnare il cambiamento in atto con politiche e azioni all’altezza della rilevanza dei fenomeni in atto.
Come fare?
1. Cambiare la prospettiva di analisi
Chi potrà avvantaggiarsi della digitalizzazione dei processi produttivi e del lavoro?
Uno studioso di economia ha scritto che:
«pensiamo sempre al bene (alla ricchezza) totale e ancora troppo poco al bene (alla ricchezza) comune».
La prima prospettiva (con la quale tutti abbiamo convissuto) ha lasciato benefici segni in molte parti del mondo, permettendo a centinaia di milioni di persone di raggiungere il benessere. Oggi non ce lo possiamo più permettere, perché se non si correggono le distorsioni nella ripartizione del bene totale, probabilmente avremo una società balcanizzata.
L’analogia con il lavoro è semplice da dedurre:
«pensiamo sempre a creare nuovi posti di lavoro, e ancora troppo a distribuire le opportunità di lavoro in modo equo».
2. Ampliare il ventaglio delle opportunità
La digitalizzazione dei processi produttivi e del lavoro offre straordinarie opportunità per tutti i segmenti del mercato del lavoro, ma non tutte le opportunità sono uguali e alla portata di tutti.
Le classi dirigenti del secondo Novecento hanno fatto la cosa giusta nell’affermare il principio di organizzazione sociale che ha permesso ai diseguali di diventare uguali (il welfare per tutti, tanto per essere chiari).
Le classi dirigenti di questo primo scorcio di secolo faranno la cosa giusta impegnandosi per affermarne un altro principio di organizzazione sociale: consentire agli uguali di essere diversi e di poter esprimere diversamente il proprio talento (qualunque esso sia), senza che questo processo porti le differenze a livelli immorali.
3. Il lavoro decente sia la via maestra
La digitalizzazione dei processi produttivi e del lavoro porta con sé il rischio di creare una moltitudine di lavoretti (è la cosiddetta Gig Economy) senza prospettive di crescita, poco qualificati e poco qualificanti.
Un mondo in cui ci sono tante opportunità, tutte di scarsa qualità e tutte poco o per nulla garantite non è propriamente un Eldorado in cui vivere e realizzarsi.
Qualcuno dice che in certi casi siamo sono al limite dei lavori dignitosi, che non sono un concetto astratto e ideologico, ma l’obiettivo di un percorso concreto per garantire alle persone una vita buona, in linea con quello che dice l’art. 23 della dichiarazione universale dei diritti umani: «Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e alla protezione contro la disoccupazione. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto a eguale retribuzione per eguale lavoro. Ogni individuo che lavora ha diritto a una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana e integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi»
Come evitare di varcare la soglia del lavoro senza dignità?
Sette mesi fa, era venerdì 12 maggio 2017, il cardinale Angelo Bagnasco ha portato il suo saluto all’apertura del 46° Congresso nazionale AIDP (Associazione Italiana per la Direzione del Personale), parlando di partecipazione e appunto di decenza a una platea di oltre 500 direttori del personale di tutt’Italia riuniti a Genova.
È partito alla larga, iniziando dal concetto di società decente, mutuato dall’omonimo libro del filosofo della politica israeliano Avishai Margalit.
In breve tempo, e senza tanti giri di parole, è arrivato al dunque. Se la società decente rimanda ad un’idea di società inclusiva, che riserva diritti e opportunità ai cittadini classicamente intesi e a tutti quelli che lo diventando per effetto anche dei fenomeni migratori, dentro le imprese il luogo di lavoro decente si realizza in presenza di un tessuto relazionale forte, che sostiene la partecipazione, l’inclusione, la partecipazione e la promozione delle persone e che ha bisogno di una certa stabilità.
Il passo dal luogo di lavoro decente al lavoro decente (in sé) è brevissimo, ma prima di arrivarci serve un altro passaggio.
4. Tenere in mente che il lavoro è «uno stare situazione»
La qualità del luogo di lavoro conta perché, anche se usano macchine o agiscono su processi digitalizzati o interagiscono con robot collaborativi:
le persone che lavorano non sono soltanto braccia, non sono nemmeno solo braccia e cuore, ma sono anche mente, progetto, libertà.
Lo scriveva il Nobel per l’economia R. Solow: «noi non entriamo in competizione per ottenere il lavoro dell’altro, speculando sui livelli salariali, perché ci è stato insegnato che è scorretto comportarsi così, o umiliante, o inaccettabile, o – magari – autolesionistico. […] La vita nel mercato del lavoro sarebbe molto sgradevole – breve, cattiva e brutale – se tale regola non esistesse».
Un altro Nobel per l’economia, D.C. North, scriveva invece che «la storia conta. È importante non solo perché si può imparare dal passato, ma perché presente e futuro sono legati al passato dalla continuità delle istituzioni sociali» e aggiungeva che «la trasformazione delle istituzioni è un processo complicato, […] La ragione di ciò […] risiede nel radicamento sociale dei vincoli informali».
5. Tenere la polarizzazione a livelli decenti
La digitalizzazione dei processi produttivi e del lavoro:
- rompe prassi e convenzioni sociali consolidate, sfidando le direzioni del personale e tutti i professionisti delle risorse umane, come hanno ben compreso gli oltre 500 esperti che hanno ascoltato il cardinale Bagnasco;
- apre molte opportunità per aumentare il coinvolgimento e la partecipazione delle persone nei processi decisionali;
- richiede una «intima e cordiale collaborazione» tra generazioni di lavoratori: da una parte i giovani nativi digitali, in grado di muoversi agevolmente nei nuovi ambienti di lavoro, e dall’altra la generazione di mezzo e quella matura che rischia di essere marginalizzata o retrocessa in posizione subordinate. Si corre il rischio di avere conflitti generazionali dentro le imprese, come hanno dimostrato alcune ricerche, ma c’è anche la grande opportunità di progettare azioni di trasferimento di conoscenza tra generazioni, come hanno suggerito altre ricerche. In mezzo, c’è la grande sfida di creare organizzazioni dotate di digital dexterity e di ridisegnare i luoghi di lavoro.
È necessario fare in modo che le opportunità di lavoro che si presentano si distribuiscano in modo equo, senza tuttavia venir meno al già citato principio di organizzazione sociale, che consente agli uguali di essere diversi e di poter esprimere diversamente il proprio talento (qualunque esso sia).
Insomma, un colpo alla botte e uno al cerchio, ma senza cadere nel cerchiobottismo.
6. Puntare sui lavori ibridi
Per accedere alle opportunità della digitalizzazione dei processi produttivi e del lavoro non servono solo i nuovi lavori (che rischiano di escludere tanti), ma servono anche i lavori consolidati, purchè trasformati (che possono dare opportunità a tanti, forse a tutti).
La trasformazione è guidata dalla contaminazione dei saperi e dalla compressione dei tempi.
La prima ci porta ai lavori ibridi. Per molte mansioni consolidate, i saperi che definiscono e danno identità del mestiere dovranno integrarsi con le competenze informatiche e digitali, con le abilità di comunicazione e interazione nei social network, con le modalità di collaborazione in ambienti di lavoro meno gerarchici, più tecnologici e dinamici. L’ibridazione dei mestieri non risparmia nessuno. Si parte dall’operaio, che prende decisioni combinando il saper fare frutto dell’esperienza con l’interpretazione di schemi e grafici, che interagisce con un robot collaborativo e che comanda le macchine usando smartphone o tablet. Si arriva al chirurgo seduto alla consolle, che muove due joystick per guidare un robot che esegue materialmente un intervento chirurgico: bracci meccanici e telecamere al posto di mani e occhi esperti; modelli di comunicazione e dinamiche relazionali tra medici e infermieri dell’équipe di sala operatoria tutti da reinventare. Tra i due estremi, un esercito di altri mestieri in trasformazione.
La compressione dei tempi, invece, scarica sui lavoratori tanto la fatica ricorrente di imparare, dato l’elevato ritmo delle innovazioni tecnologiche e organizzative, quanto lo stress di doverla fare in tempi molto rapidi, data la velocità con cui le novità vengono incorporate nei processi economici. L’operaio specializzato deve acquisire subito le competenze di soglia richieste dalla Fabbrica 4.0, per non rischiare di essere impiegato nelle attività svolte in modo tradizionale e destinate alla progressiva contrazione. Il chirurgo esperto che non riesce a staccarsi dal bisturi e non sviluppa le abilità per manovrare il joystick come un bisturi, rischia di essere marginalizzato se la sua unità diventa una Sala Operatoria 4.0. Se i lavoratori sono in età matura e con qualche decennio di esperienza alle spalle, il rischio è concreto, perché da una certa età in poi la fatica di imparare è insostenibile per molti.
La formazione ricorrente di chi già lavora reclama soluzioni originali. Non i tradizionali percorsi d’aula, ma il modello Lego. Da un lato, sessioni formative centrate su competenze e abilità specifiche, che il lavoratore acquisisce in fretta e che poi, come con i mattoncini Lego, aggiunge alla sua professionalità per adattarla «quanto basta» alle nuove esigenze. Dall’altro, metodi didattici partecipati, dove si impara sperimentando, interagendo e osservando gli altri e simulando decisioni, e non solo seguendo una lezione, prendendo appunti e risolvendo casi. Insomma, un approccio plug&play, coerente con i tempi compressi.
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