Lavoro

Lavorare in una lavanderia industriale

7 Novembre 2015

Giovanni aveva superato i trent’anni e viveva ancora coi suoi genitori. Situazione deprimente, insopportabile. Una di quelle situazioni che mettono un giovane creativo, musicista e fotografo freelance, davanti al bivio definitivo: perdo la dignità o accetto qualsiasi lavoro? Giovanni ha scelto la seconda. Entra così in una lavanderia industriale. E scopre che il lavoro salariato manuale è un fronte duro, durissimo, forse l’ultimo fronte da trincea del mondo occidentale. Testo e foto: Giovanni Paolone

Nella vita di ogni uomo c’è un istante in cui le cose cambiano.

Ed è in quello stesso istante, in quella piccola frazione di secondo, che tutto quello che fino ad allora si era dato per scontato crolla, trasformandosi in un pantano di indefinita e sterile fissità. Questo è grossomodo ciò che è successo anche a me. Ero in un periodo di buia e stitica capacità creativa. Avevo fatto domanda per un master di specializzazione a Milano, domanda che era stata rispedita al mittente con la solita formula a metà tra buona educazione e dovere formale. La persona di cui ero innamorato scopava con un altro e, come se non bastasse, vivevo ancora con i miei. Superati i trent’anni, rischiavo di diventare più una barzelletta che altro. Mi ubriacavo praticamente tutti i giorni, fumavo troppo e non lavoravo. Il che, per uno che ha appena superato i trenta, con una laurea alle spalle e un’ambizione che rischiava di superare di gran lunga il proprio talento, non era una bella cosa.

Non ricordo quand’è che la mia vita ha subito quella sterzata negativa di cui vi sto parlando. Forse era un triste pomeriggio di marzo, mentre sorseggiavo la mia solita birra belga al solito bar, birra comprata a credito, grazie alla compiacenza del barista mio amico.

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Svolgevo lavori occasionali. Di tanto in tanto venivo chiamato per suonare in qualche squallido locale, dato che resto sempre un musicista, nonostante due anni fa abbia deciso di lasciare la band dove ho militato per cinque lunghi anni e che ora, per qualche stupido scherzo del destino, senza di me, sta riscuotendo un discreto successo. Mi sentivo come si è sentito Pete Best all’indomani del suo allontanamento, se non fosse che la mia è stata una decisione ponderata e non tanto istintiva. Ma questa è un’altra storia e non ho tempo né voglia di stare qui a menarmela. In più, sempre occasionalmente, mi capitava qualche servizio fotografico, tipo matrimoni, battesimi o compleanni. Situazioni non molto esaltanti, in sostanza.

Funziona sempre così: uno ha bisogno di soldi e si accontenta del primo lavoro che trova. E’ un assioma barbaramente accettato. Non ricordo come, ma trovai lavoro in una lavanderia industriale. Era l’inizio di aprile ed ero iscritto ad un’agenzia per il lavoro. La mattina del colloquio misi il mio vestito migliore. Misi il mio profumo migliore. Misi le mie scarpe migliori (un paio di adidas gazelle, che porto tutt’ora). Scoprii solo più tardi che non ce n’era bisogno, che questi formalismi non avevano nulla da spartire né con il luogo preposto al colloquio né con il lavoro stesso per cui l’agenzia mi aveva contattato.

Dieci minuti di pausa per colazione, un’ora per pranzo, cinque minuti il pomeriggio. Poi tornavi a casa a pezzi, con le dita intorpidite e le gambe tremolanti,  e il cerchio si chiudeva intorno a te, come una prigione.

Quando entrai nell’ufficio dell’agenzia, ricavato da una piccola stanzetta all’interno della struttura in cemento armato in cui era ubicata la lavanderia, fui assalito subito da un senso di vuoto. Mi prese il panico, non tanto per il colloquio in sé, quanto forse per la consapevolezza che, in un modo o nell’altro, se in quel preciso istante mi trovavo lì, significava che avevo fallito. Se dieci anni prima mi avessero detto che a trent’anni mi sarei ritrovato ad assere assunto, con un contratto di lavoro somministrato, in una lavanderia industriale come addetto alla cernita di biancheria dell’ospedale, non ci avrei creduto. Mi vedevo da tutt’altra parte, su qualche spiaggia assolata a bere cocktail e fumare marjiuana tutto il giorno. Ascoltai la voce metallica della responsabile dell’agenzia parlarmi di sicurezza sul lavoro, dpi, mansioni, diritti, doveri, tfr, contratti di somministrazione.

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Ero in una sorta di limbo perverso: avevo un piede nella fossa e l’altro mi era stato già troncato. Firmai. Senza esitazione. Avevo bisogno di soldi. Stavo progettando un viaggio in India, per un reportage fotografico. Mi dissi: due o tre stipendi e poi parti. Ovviamente, non andò così. In compenso sono andato a vivere da solo, il che può essere certo una cosa gratificante, ma di certo non compensa la sensazione di fallimento che permeava tutta la mia epidermide.

Mi ubriacavo praticamente tutti i giorni, fumavo troppo e non lavoravo. Il che, per uno che ha appena superato i trenta, con una laurea alle spalle e un’ambizione che rischiava di superare di gran lunga il proprio talento, non era una bella cosa.

Il lavoro, tuttavia, era semplice. Almeno sulla carta. Mi occupavo della cernita della biancheria. C’erano quattro diverse postazioni di cernita e sei postazione di pinzatura. Funzionava così: tre diversi nastri trasportatori che raccoglievano la biancheria lavata e pressata. Al nastro lungo ci lavoravano quattro persone, ognuna per circa tre ore. Era la postazione più dura, perché la biancheria arrivava troppo pressata e si faceva una fatica enorme a sciogliere i vari nodi che si creavano tra lenzuola e coperte, ad esempio. La biancheria una volta cernita veniva posta su dei carrelli che, riempiti, uno dei quattro doveva portar via.

Dal nastro lungo si passava alle pinze Biko, con le quali la biancheria raggiungeva i vari mangani posti al piano di sotto, passando su due distinti binari, uno per le lenzuola, l’altro per le traverse. I turni in pinzatura variavano a seconda della mole di lavoro, delle assenze e, soprattutto, dell’esperienza creativa del capoturno. Dal reparto pinzatura si passava ad un altro nastro trasportatore e poi ad un altro ancora per tornare da dove si era cominciato. Otto ore in questo modo, interrotte solo da una fastidiosissima sirena che scandiva le pause, come una prigione senza tempo in cui degli aguzzini invisibili ci cullavano nella falsa speranza di un contratto a tempo indeterminato e di una vita fatta comunque di stenti. Dieci minuti di pausa per colazione, un’ora per pranzo, cinque minuti il pomeriggio.

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Poi tornavi a casa a pezzi, con le dita intorpidite e le gambe tremolanti, capace solo di mangiare qualche boccone per cena e poi andartene a letto, perché il giorno seguente la vita riprendeva a scorrere, sempre uguale, con la speranza che il weekend arrivasse presto per fare tutto ciò che durante la settimana non avevi potuto fare. Poi scoprivi che il weekend che avevi aspettato così tanto lo avresti passato sul divano a riposare le tue gambe molli e a guardarti allo specchio mentre dimagrivi a vista d’occhio. E il cerchio si chiudeva intorno a te, come una prigione.

Per la cronaca, in India non sono ancora stato. I soldi non sono bastati.

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