Benessere
Lavorare in Italia: perché “prima gli italiani” non significa nulla
L’Italia ha un problema e si chiama crisi del mercato del lavoro. Niente paura, siamo in buona compagnia. Il problema infatti ha una dimensione globale che, su larga scala, è motivata da una serie di fattori rispetto ai quali l’incisività dei governi locali può essere assai scarsa. Il libero mercato, la libera circolazione delle merci, la possibilità per gli imprenditori di delocalizzare le produzioni in paesi dove il lavoro costa meno e minori sono i vincoli di legge e i diritti dei lavoratori, hanno reso la vita molto difficile a chi lavora dentro e fuori l’Italia.
Il tema è europeo, anzi, in larga parte occidentale e dove il problema non sussiste è solo perché – a monte – non esistevano i diritti che qui stanno progressivamente venendo meno. E non è un vantaggio.
Un discorso sul mercato globale poterebbe via un’infinità di tempo (e citazioni), ma restando a casa nostra e limitandoci all’analisi del nostro quotidiano, risulta piuttosto evidente che i “vantaggi” della globalizzazione sono in realtà compensazioni per tutto quello che, progressivamente, abbiamo via via perso. In primis in termini di potere di acquisto. Nessun discorso “di sinistra” o “valoriale”, ma una semplice constatazione utilizzando gli stessi parametri di mercato. La classe media ora ha la possibilità di acquistare, a basso costo, prodotti che un tempo acquistava (e poteva permettersi di acquistare) a costo medio e il divario, in termini di disponibilità di spesa e tipologia di prodotto, fra chi può permettersi acquisti “base” rispetto a chi può permettersi quelli di “categoria superiore” è sempre crescente. La classe media insomma sta sparendo, insieme ai prodotti che – un tempo – la rappresentavano. Il progressivo impoverimento dei centri storici nasce anche da questo: osservando il centro di qualsiasi cittadina medio/grande ci accorgeremo che le alternative possibili, come tipologia di acquisto, si stanno restringendo: catene a basso costo o negozi di lusso. A monte un lungo percorso di trasferimenti, da parte degli imprenditori, di personale, capitali, merci. Con buona pace per la valorizzazione, a parole, del patrimonio locale. Quindi, ricapitolando, siamo tutti contenti di comprare la maglietta “a poco” e poterla cambiare ogni stagione e non ci accorgiamo che una volta ne potevamo comprare una fatta meglio, magari anche “pensata” meglio (da un punto di vista dei materiali, della produzione, del processo creativo che aveva alle spalle) e che ora non ci possiamo più permettere perché, lo stesso sistema che ci garantisce la maglietta a 7 euro, ci ha fatto perdere potere di acquisto. “Mangino brioches” insomma, ma di sicuro non artigianali.
L’Italia vive poi di sue peculiarità. Una di queste, rispetto ad altri paesi europei con un tasso di occupazione (in particolare occupazione giovanile) più alto, è l‘assenza di un’imprenditorialità di livello. Spesso infatti sentiamo parlare di giovani “bamboccioni”, di scuola e università che non preparano al mercato del lavoro. Peccato che, negli altri paesi, il mito del “laureato o diplomato pronto per l’uso” sia morto decenni fa. A lavorare s’impara lavorando, ma in Italia solo il 60% delle aziende fa formazione interna e si tratta, per lo più, di aziende medio grandi. Peccato che larga parte del paese, imprenditorialmente parlando, sia formato da aziende medio/piccole. Le politiche per il lavoro non migliorano in ambito pubblico. Con enormi divergenze di regione in regione si arriva infatti ad una media nazionale del 3% dei lavoratori collocati o ricollocati attraverso i centri per l’impiego. Si investe poco insomma e, come insegna il mercato, scarso investimento spesso equivale a scarsa resa.
In tutto questo i media raccontano che la crisi sta passando. A inizio 2019 l’Istat segnalava un calo al 10,3% del tasso di disoccupazione in Italia. Giubilo! Peccato che non vengano dichiarati i parametri rispetto ai quali viene definita occupata una persona. Bene, facciamo il punto.
Per l’Istat è occupato chi, avendo compiuto i 15 anni, risulta aver svolto nel corso di una settimana per il periodo campione di riferimento almeno un’ora di lavoro per la quale sia previsto un compenso monetario o in natura, oppure abbia svolto almeno un’ora di lavoro non retribuita nella ditta familiare nella quale collabora abitualmente.
Ricapitoliamo: a meno che il lavoro non preveda una paga oraria stellare il fatto che un soggetto risulti “occupato” per l’Istat non significa assolutamente niente. Sempre stando a questa statistica è bene ricordare che cala la disoccupazione, ma aumenta il lavoro a tempo e atipico. A calare è invece ancora e sempre il lavoro stabile e che, comunque, il tasso di occupazione si ferma al 58,8%. Vogliamo pensare che il 40% della popolazione italiana sia inoccupata per scelta? La cifra, anche escludendo gli inoccupati per patologie o scelte di vita provvisorie o permanenti, rimane alta. E in quel 58,8% ricordiamo che una buona percentuale potrebbe percepire un reddito mensile al limite del ridicolo lavorando qualche ora la settimana in maniera non costante. I conti in tasca al paese sono presto fatti, ma senza l’oste. In Italia infatti soffriamo di una malattia cronica, chiamata evasione fiscale, che ci regala il primato in classifica europea. Per ogni euro riscosso in tasse 23 centesimi vengono evasi. Dallo scontrino non battuto in cassa per il caffè alla grande evasione fiscale d’impresa. Ovviamente evade chi può, non i lavoratori dipendenti che, ancora una volta, si collocano fra l’incudine e il martello e finiscono con pagare i conti dei furbetti o furboni di turno. In tutto questo però le proposte avanzate per rilanciare l’economia prevedono, ad oggi, flat tax e quota 100, due provvedimenti che, nemmeno occorre sottolinearlo, andranno a migliorare le condizioni di chi già si trova in una situazione di “privilegio” e peggiorare quelle di chi si arrangia. Nessuna proposta per la tassazione delle imprese con sede all’estero ma profitti in Italia. Nessuna proposta di riforma fiscale. Nessuna proposta per maggiori controlli su imprese e mercato del lavoro.
In tutto questo i finanziamenti in sostegno del reddito e in particolar modo delle famiglie, rispetto alle quali tanto si parla in termini valoriali, vengono ridotti, ridimensionati o semplicemente non garantiti per tutte le tipologie di contratto di lavoro esistenti. Le cose vanno male quindi, nonostante qualcuno tenti di dire il contrario.
E veniamo a un’amara nota finale. Da indagini statistiche recenti risulta che il problema principale per gli italiani sia proprio il lavoro, seguito, ma con grande distacco, da inquinamento, viabilità, costo della vita, sanità e solo al sesto posto immigrazione, seguita dalla criminalità.
Eppure di lavoro si parla pochissimo, mentre ogni giorno assistiamo a un importante lavoro mediatico, da parte della politica e dell’informazione, su temi quali immigrazione e sicurezza. Il risultato? Le persone, percependo un problema e vedendo però costantemente proposto in prima pagina un “capro espiatorio” facilmente identificabile (difficile vedere il “male” in chi ci garantisce comunque una maglietta a basso costo o nel datore di lavoro che “nonostante sian tempi di crisi” consente di lavorare “in qualche modo”), vivono in un costante stato di bipolarità. E finiscono col confondere mali e cure per questo Paese. Il problema del crescente razzismo in Italia non è etnico, culturale, sociale e meno che mai valoriale. Il problema è meramente economico e legato a una lecita domanda di benessere. Quando l’obiettivo tornerà ad essere chiaro alla maggioranza dei cittadini e chiare anche le responsabilità (nostre in primis) dello status quo, forse avremo anche la possibilità d’immaginare una prospettiva nuova fuori da una crisi che crisi non è, ma “semplice” cambiamento epocale.
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