Lavoro

#labuonascuola corre sul ponte di Messina?

23 Novembre 2014

“Chi non fa , insegna” recita un vecchio adagio che circola nelle università (specialmente in quelle di architettura in cui molti docenti di progettazione non avevano mai messo piede in un cantiere). La frase, è solo apparentemente innocua. E c’è poco da #staresereno. Si, perché siamo in tempi in cui un’aria nuova, sospinta dagli hashtag della rete, sembra soffiare su quei mondi – la scuola, l’università – afflitti da atavici e apparentemente irrisolvibili problemi. E mentre il “buonismo” ha universalmente assunto un’accezione negativa, il governo pubblicizza la proposta di riforma scolastica denominata “la buona scuola”, sottoforma di fascicolo dall’impaginato friendly che ammicca a un mondo futuro easy e smart.

Chi non fa, riforma.

E’ questo il pensiero che sovviene a qualunque insegnante che, aprendo la pagina web del proprio istituto d’istruzione secondaria alla voce “modulistica”, trova davanti a sé un elenco di circa quaranta modelli da compilare per qualsiasi azione – didattica o meno – da compiere durante l’anno scolastico. Ovvero è inevitabile pensare che, coloro che hanno ideato quelle pagine ricche di colorate infografiche de “la buona scuola”, non abbiano messo mai piede in una scuola, o in un’università. Come insegnanti, intendo. Ovviamente, di fronte a una tale montagna di scartoffie, la didattica costituisce soltanto uno sfondo sfocato nella vicenda scolastica, delegata alla pomposa prosopopea delle indicazioni nazionali o alla buona volontà del volenteroso, e ancora motivato, insegnante. Anche perché a diversi dirigenti scolastici l’unica cosa che interessa davvero è che “all’utenza (gli alunni, ndr) venga assicurata la presenza in aula”. Ovvero l’importante non è quello che il docente dice o fa, bensì che tutti siano in aula al momento del suono della campanella. Logica conseguenza di un sistema di reclutamento organizzato su base quantitativa – il punteggio in graduatoria – e non qualitativa. Alla fine questa posizione conviene un po’ a tutti e garantisce un’inerzia durevole: il dirigente non si occupa di didattica e il professore si adegua alle direttive, svolgendo meccanicamente il suo programma. Perché si debbano insegnare ancora i graffiti preistorici a dei ragazzi che maneggiano quad core e gigabyte da anni, in pochi se lo ricordano ancora. E non è possibile credere che basti una lavagna interattiva – che davanti a nativi digitali appare come un dinosauro misterioso – per aggiornare la scuola alla realtà contemporanea. Ricordo ancora il panico dei professori che seguivano il PAS (Percorso Abilitante Speciale, una delle tante iniziative pensate per porre rimedio al caos delle graduatorie) quando venne richiesto una presentazione digitale propedeutica all’esame.  

Tra le pagine del booklet “la buona scuola” scaricabile dai siti governativi, il punto di forza è costituito dalla promessa di assumere per chiamata diretta tutti i docenti presenti nelle graduatorie a esaurimento. Centocinquantamila precari (più esauriti della graduatoria) che attendono da anni l’immissione in ruolo, barcamenandosi tra contratti “annuali”, “spezzoni orari”, “fino ad avente diritto” e altre creative denominazioni. Non si capisce se sarà più facile realizzare il ponte di Messina o dare seguito a questa onerosa proposta, in un’organizzazione in cui mancano i soldi anche per l’acquisto della carta igienica (verificate i bagni di una scuola o di un’università a fine anno) o le risme di carta. Di sicuro la costruzione della speranza cammina di pari passo con l’accrescimento del consenso – non lo dico in maniera antagonista come potrebbe apparire a Matteo Colle – e molti anelano il posto da molto, troppo, tempo. La guerra tra poveri è iniziata da anni e le file degli schieramenti – TFA, PAS, Concorsone, Graduatorie ad esaurimento – continuano a infittirsi in un’attesa sempre più spasmodica e incattivente.

Ancora ricordo quando in un consiglio di classe chiesi al professore, a cui tutti rivolgevano le felicitazioni e i complimenti, se avesse avuto un figlio. Lui, sorridendomi con aria comprensiva, mi rispose: “no, sono entrato di ruolo”.

 

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