Lavoro
La solitudine dell’art. 1 della Costituzione
Recentemente in una riflessione acuta Zagrebelsky ci ha ricordato che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro (art.1),perché questo principio è la chiave di lettura della Tavola Fondamentale. La nostra è una Repubblica democratica, non liberista e dunque se si deve dare sostanza alla libertà, essa deve in primo luogo debellare la schiavitù dal bisogno (Gustavo Zagrebelsky, Fondata sul Lavoro Einaudi editore).
I Costituenti questo lo capirono e diedero questo connotato tipico alla nostra Repubblica. Il lavoro è un diritto sacrosanto (art.4) e la Repubblica dovrebbe adoperarsi per renderne possibile l’esercizio.Lo stesso articolo 36 ci rammenta che la retribuzione da conferire al lavoratore deve essere proporzionale al lavoro reso ed assicurare un’esistenza dignitosa per sé e la di lui famiglia.
Ma si riscontra nelle politiche economiche la solitudine dell’art. 1, perché esse sono asservite alla divorante Finanza, agli interessi di consorterie neo-liberiste.
Lo si è visto con il Jobs act e l’abolizione- riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori,politiche caldeggiate dal governo di Renzi che si professava di sinistra moderna. Oggi con un contratto a tempo determinato un giovane non ha la busta paga certa, in forza della quale non può essere ottenuto neppure un finanziamento per acquistare un frigorifero, figuriamoci per ottenere un mutuo e mettere su casa. Aver debellato il contratto a tempo indeterminato nelle politiche delle relazioni industriali, è un servigio all’imperante neo-liberismo, ma anche la distruzione di quel fondamento su cui si è eretto lo sforzo economico del nostro paese che ha sacre due cose: la casa ed il lavoro;per tutti non per pochi.
La concezione del lavoro espressa in apertura della costituzione non è dunque un artificio retorico, ma qualcosa che impegna e deve impegnare l’agire politico.
Il lavoro è sì un diritto, ma per sua natura è condizionato dalla politica che dovrebbe porlo al centro. Invece l’Europa e gli Stati hanno privilegiato la dittatura della Finanza e dei mercati e lasciato indietro le politiche a salvaguardia del lavoro.
Joseph Stieglitz ci ricorda: “se i mercati avessero mantenuto le promesse di migliorare il tenore di vita, tutti i peccati delle imprese, tutte le apparenti ingiustizie sociali, i danni all’ambiente in cui viviamo o lo sfruttamento dei poveri avrebbero potuto essere perdonati. Il capitalismo non riesce a fare ciò che ha promesso e fa cose che non aveva promesso crea diseguaglianza, inquinamento, disoccupazione ed il degrado dei valori al punto che si può accettare tutto e nessuno è responsabile” (Il prezzo della diseguaglianza).
In un recente scritto che prende questa scia, Gianluigi Paragone ha sottolineato: ”il danno maggiore, il rigorismo lo ha fatto distruggendo quell’economia reale che ci ha resi unici nel mondo, nonostante la corruzione, la mafia e tutto il peggio che ci sta appiccicato addosso. Già, perché noi nonostante tutto eravamo dei campioni. Campioni mondiali di risparmio privato; campioni di modelli d’impresa (il modello delle piccolissime, delle piccole e delle medie imprese, dei distretti e dell’artigianato è studiato studiato nelle università estere); campioni persino di un modello di Stato sociale che qualcuno definiva “mediterraneo” per metterlo in relazione con quello scandinavo. Ora? Ora ci hanno obbligati a vivere in un mondo che non è nostro, un mondo fintamente moderno dove l’economia gira sul debito, sulla carta e sull’inganno di meccanismi finanziari. Il dramma è che questo sistema è entrato nelle viscere dello Stato, è entrato come un virus nella Costituzione pure laddove lo Stato dovrebbe avere il primato assoluto. Questo virus neoliberista è entrato nello Stato sociale, proiettando così l’antico welfare state in un nuovo e pericoloso modello di welfare, il welfare bank” (da GANGBANK, di Gianluigi Paragone).
Ecco dunque che nella sacralità di questa festa vale il monito del giovane Marx: “Certamente il lavoro produce meraviglie per i ricchi, ma produce lo spogliamento dell’operaio. Produce palazzi, ma caverne per l’operaio. Produce bellezza, ma deformità per l’operaio.
il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito” (Manoscritti economici filosofici).
La stessa dottrina sociale della Chiesa difende il lavoro.
“La gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi” (Caritas in Veritate, enciclica di Papa Benedetto XVI).
“Dio, che ha dotato l’uomo d’intelligenza, d’immaginazione e di sensibilità, gli ha in tal modo fornito il mezzo onde portare in certo modo a compimento la sua opera: sia egli artista o artigiano, imprenditore, operaio o contadino, ogni lavoratore è un creatore. Chino su una materia che gli resiste, l’operaio le imprime il suo segno, sviluppando nel contempo la sua tenacia, la sua ingegnosità e il suo spirito inventivo. Diremo di più: vissuto in comune, condividendo speranze, sofferenze, ambizioni e gioie, il lavoro unisce le volontà, ravvicina gli spiriti e fonde i cuori: nel compierlo, gli uomini si scoprono fratelli. Il lavoro sviluppa anche la coscienza professionale, il senso del dovere e la carità verso il prossimo”( passim Populorum Progressio).
Se valgono questi principi lo Stato ritorni a riscoprire la sua socialità e diventi risorsa ultima per la salvaguardia dei più deboli e le forze politiche pongano a centro delle loro strategie il lavoro.
Così l’ art. 1 della nostra Carta Fondamentale non è più in solitudine.
Biagio Riccio
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