Benessere
Precarietà e disinvestimento: vite a mezzo servizio
Viviamo nell’epoca della precarietà, nel mondo liquido, nell’epoca del relativismo. Ci stiamo pian piano abituando alla normalità di una condizione che, almeno agli inizi, definivamo come provvisoria e accidentale. Passerà, insomma, e tornerà qualche certezza. I più giovani però, quelli che fuori dalla crisi non hanno mai vissuto, nemmeno nel periodo della loro infanzia, hanno capito che la crisi non è passeggera, ma elemento costituivo e “definitivo” di un nuovo modo di essere dell’occidente: precario. Se ne sono accorti a partire dal lavoro, certo, ma pian piano lo spettro, che ha poco a che spartire con quello di ottocentesca memoria, ha incominciato ad aggirarsi in altri settori della vita.
Perché – piaccia o meno – l’intera cultura occidentale è fondata sul lavoro, sull’alternanza di otium e negotium, sul binomio dovere e piacere. Non esiste l’uno senza l’altro.
Il precariato ha minato così in profondità lo spirito d’occidente non tanto e non solo per le sue ripercussioni oggettive e materiali. Instabilità economica, mancanza di autonomia, senso di inadeguatezza, mancata realizzazione, frustrazione, impossibilità di progettare e programmare, completa incertezza delle prospettive non sono danni collaterali, ma tutti hanno un comune denominatore: l’impossibilità di essere pienamente presenti, l’impossibilità – a meno che non si voglia correre il rischio di una costante costruzione/demolizione – di investire tutto ciò che si ha in un progetto. Di lavoro, di vita.
La precarietà ci ha abituato a giocare in difesa e, come quando l’aereo sta per decollare, a tenere bene a mente dove si trovano le uscite di sicurezza. Dimentichiamo però che, mentre siamo occupati a fissare l’insegna con la scritta “exit”, ci distraiamo dal viaggio. Il precariato crea un fisiologico distacco: non permette il lusso di affezionarsi a un luogo di lavoro, a un progetto, a un gruppo e, quando per qualche ragione accade, ci costringe a operare un graduale allontanamento. Non ci consente neppue di odiare, in alcuni momenti, la routine di un impiego, perché si sa perfettamente che “oggi c’è, domani chissà, quindi meglio non lamentarsi, nemmeno con una battuta in compagnia degli amici”. E tutto questo è diventato normale.
Il messaggio della flessibilità – alter ego edulcorato del cugino nevrotico e instabile – ha pervaso a tal punto la nostra cultura da trasformare la stabilità in qualcosa di antiquato.
Una specie di valore d’altri tempi, ormai superato, inadeguato al presente. Chi la ricerca è fuori moda. Neppure in passato la stabilità era garantita e nessuno, salvo atti di grande ingenutià, si è mai illuso che potesse esistere in carne ed ossa. Anche in passato avvenivano licenziamenti, crisi, anche in passato esisteva la precarietà delle relazioni, dei legami, ma si trattava di accidenti, di situazioni anomale rispetto alle quali difendersi con una rete di altre sicurezze o anche solo con l’accoglienza di chi poteva comprendere questa anomalia. Nell’universo precario invece s’impara a fare a meno anche di questo perché, ci insegnano, è normale. Così come è normale non costruire più la propria identità rispetto a un ruolo sociale, a un percorso di formazione o professionale, all’appartenenza ad un contesto. C’è chi sostiene che le nuove generazioni si vadano definendo non più, come le precedenti, in base ad un percorso di realizzazione sociale o economica, ma in base a “beni posizionali”, che possono essere definiti come gli status symbol contemporanei. Un tempo l’orologio di lusso o l’auto di grossa cilindrata, oggi il consumo di un “bene culturale” o la frequentazione di un determinato spazio.
Ma davvero tutto questo basta a creare una nuova stabilità? A ridefinire i parametri entro i quali orientarsi nel quotidiano? Un avocado toast consumato in un locale ricavato da un’ex officina e arredato con bancali e lampadine che pendono direttamente dal soffitto può sostituire un sistema di sicurezze che si basava, fino a poco tempo fa, su una discreta certezza di dove si stava al mondo e a quale punto del percorso di vita? Ma il più grande torto della crisi è che, pur generando estraneità nelle persone e il venir meno di un senso di appartenenza, di percorso, ha lasciato perfettamente intatte le cause del suo sviluppo. A nessuno è negata la possibilità, fino in fondo, di accedere a status simbol tradizionali. Basta un prestito e, nel baratto, abbiamo ceduto il nostro spazio identitario. L’essere qualcuno, orientandoci in uno universo di relazioni. Anche la vita privata finisce spesso con l’essere permeata dall’instabilità. Indefinitezza non tanto come scelta consapevole, ma come dato di fatto rispetto al quale, in un gioco di impossibilità reali e confortevoli pretesti, non porsi mai di fronte alle vere domande. Che finirebbero tutte col metterci davanti ad una valutazione di merito sulla felicità e sulla nostra realizzazione. Per fortuna, grazie alla crisi, possiamo evitare di farla o, quantomeno, procrastinarla il più possibile. Attenti sempre a non investire troppo in ciò che è – per costituzione – instabile, sempre con la sottile ansia del tenere sotto controllo vie d’uscita che, in fondo, non portano a nulla.
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