Costume
La narrazione del “privilegio” e la scomparsa dei diritti
C’erano una volta i diritti, acquisiti – e non regalati – con anni di lavoro e di lotte da parte di chi, presa coscienza delle disparità sociali, aveva deciso che occorreva cambiare. I diritti dei lavoratori, i diritti delle donne, i diritti civili e dei bambini, il diritto all’istruzione. Per chi è nato a partire dalla metà degli anni Settanta questi diritti hanno rappresentato un dato di fatto, qualcosa di acquisito e scontato. Poi il mondo è cambiato e, forse più che la caduta del muro di Berlino, la differenza l’ha fatta la diffusione capillare di una cultura della crescita e della performance costante che, dai piani industriali alle pubblicità delle creme modellanti, raccontava il sogno di un progresso senza limiti. Un limite però c’era ed erano proprio quei diritti che – poco alla volta – sono stati messi in discussione perché percepiti come un possibile ostacolo al buon funzionamento del sistema a crescita costante. Un problema relativo in un contesto di benessere, dove ciascuno poteva (o piuttosto pensava di potere) permettersi di compensare il venir meno delle tutele sociali. In fondo la narrazione mediatica ci rappresentava via via sempre di più come popolo sovrano e chi regna, nel suo privilegio, non si occupa di diritti.
Poi ci siamo accorti che non era così semplice e che nel cambio, a lungo andare, la maggioranza ci avrebbe rimesso, ma, fino a poche settimane fa, sembrava normale andare a lavorare con l’influenza, una sorta di segno di distinzione sociale per chi “non si ferma mai” e supera gli ostacoli, quando in realtà si trattava – almeno per una fetta crescente di popolazione – solo di mera necessità. Se non lavori non mangi, perché il diritto alla malattia, quello, ce lo siamo già mangiato. Era bello però vendere tutto questo come positiva immagine del superuomo o della superdonna.
La pandemia però ha definitivamente scoperchiato il vaso di Pandora dei problemi sociali del nostro Paese. Le disparità fra tipologie contrattuali dei lavoratori, la differenza di opportunità che, con la didattica a distanza, sono offerte a bambini e ragazzi provenienti da contesti sociali diversi, la distanza fra chi ha – in questa quarantena – la noia come massimo problema e chi non riesce più a sostenere il peso della gestione familiare. Con un divario uomo/donna (nel carico di cura, nelle scelte imposte rispetto alla carriera) che, anche nel discorso sulla ripresa, non viene a tutt’oggi messo in discussione.
In un quadro a tratti desolante ci si sarebbe potuti aspettare un ritorno, almeno lessicale, al tema del diritto. Quello a cui stiamo assistendo invece è un’involuzione ulteriore della percezione collettiva rispetto alla questione: la necessaria riflessione sui diritti è stata completamente assorbita dal dibattito d’opinione sui privilegi.
Privilegio è la possibilità di percepire un contributo di 600 euro. Privilegio è poter accompagnare il figlio disabile a fare una passeggiata. Privilegio è possedere ancora, per contratto, degli ammortizzatori sociali come disoccupazione e cassa integrazione. Privilegio è poter fare smart working.
Se si può trovare un termine il cui utilizzo diffuso ben rappresenti la modalità psicologica di approccio, da un punto di vista sociale, alle disparità questo è proprio “privilegio”. La contrapposizione del singolo all’altro, il noi contro il loro, senza la mediazione di una riflessione in grado di distinguere ciò che realmente rappresenta un privilegio e ciò che, invece, può rientrare a pieno titolo in una semplice guerra fra poveri. Così, nell’inseguimento costante del privilegiato di turno, abbiamo accantonato la difesa del diritto. Al tentativo d’innalzare per tutti l’asticella di ciò che deve essere garantito, come base e per un principio di equità, abbiamo preferito lo sforzo costante per abbassare quella di chi, a nostro giudizio, godeva di benefici superiori ai nostri.
Le prime settimane della pandemia da Covid19 hanno offerto un interessante dimostrazione di questo nostro modus operandi sociale. Il primo attacco, in tempi ancora non sospetti, è stato contro il “privilegio” di chi ancora si concedeva l’aperitivo o il pranzo fuori (quando ancora era concesso). Poi è stato il turno dei runner, dei proprietari di cani, dei genitori con bambini a passeggio, dei fumatori e delle tabaccherie aperte. L’attacco al privilegio si è trasformato, complice lo stress da reclusione, in una mania delatoria che ha raggiunto il suo punto più basso quando ha costretto i familiari di ragazzi autistici a “segnalarli” con un fiocco blu addosso durante le passeggiate garantite per motivi di salute. Energie, risorse e pensiero sono stati spesi per assecondare (o guidare) questa tendenza, piuttosto che in interventi di revisione e riprogettazione dello status quo da cui siamo partiti e al quale, con poco senso di prospettiva, speriamo di tornare il prima possibile.
Programmi di approfondimento sui media tradizionali interamente dedicati alla caccia al privilegiato, con tanto di inseguimenti live, un infinito dibattito su web e social network dedicato esclusivamente all’osservazione ossessiva e malevola dell’orto del vicino. Nessun accenno, se non sporadicamente, a ciò che si potrebbe pretendere, per tutti e in modo sostenibile, terminata la crisi. Ad una riflessione sulle potenzialità in termini di risparmio economico, salvaguardia ambientale e conciliazione familiare di un lavoro davvero smart (e non il semplice telelavoro, perché le parole sono importanti), preferiamo il commento acido nei confronti di chi ha il privilegio di lavorare da casa in pigiama. Ovviamente semplificando e banalizzando costantemente il dibattito.
La storia inizia però da molto più lontano. Ricordiamo i privilegi dei dipendenti statali? E quelli dei maestri e insegnanti? I privilegi della politica e quelli di categorie professionali specifiche, anche quella di coloro che oggi chiamiamo eroi e, fino a poco tempo fa erano solo medici con le vacanze pagate dalle case farmaceutiche? Al posto di provare a correggere le storture di sistema, di mettere a fuoco le criticità, che fisiologicamente si possono manifestare, ci siamo fatti coinvolgere in una sterile caccia alle streghe che ha funzionato, in modo molto efficace, come strumento di distrazione generale.
Mentre criticavamo il privilegio del vicino non ci siamo accorti che si stavano riducendo i nostri diritti e abbiamo anzi collaborato alla loro riduzione, in termini di opinione pubblica, di approvazione corale dell’abbassamento delle tutele (che qualcuno ci ha abituato a chiamare privilegi).
Fino a quando non è toccato anche a noi. La pandemia ha imposto un fermo globale di sistema che mai si sarebbe realizzato in condizioni ordinarie. Sta a noi adesso decidere se credere, ancora una volta, che “andrà tutto bene” se torneremo alle condizioni pre Covid19 (le stesse che ci hanno condotto a questa crisi), oppure se rifiutare questo tipo di racconto e provare a risemantizzare in modo corretto il dibattito: diritti e non privilegi, comunità responsabile e non popolo sovrano.
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