Lavoro

All’Italia serve un salario minimo?

21 Febbraio 2022

In questi giorni è approdata in commissione al senato la proposta per l’istituzione di un salario minimo a 9 euro l’ora, firmata dall’ex ministro Catalfo. Oltre a Lega e Forza Italia anche il Partito Democratico si è messo a remare contro alla proposta con una raffica di emendamenti, scatenando le ire dell’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, tra i più ardui sostenitori della proposta.

Il nostro paese è uno dei pochi, in Europa, che non prevede un salario minimo per legge: assieme a noi le socialdemocrazie nordiche- che possono però affidamento sulla contrattazione collettiva e sulla forza contrattuale dei loro sindacati- oltre a Cipro e l’Austria. La contrattazione collettiva, che doveva fare le veci del Salario Minimo nel nostro paese, è stata però intaccata dalla debolezza e dal conservatorismo dei sindacati.

Nel corso degli anni sono state avanzate varie proposte per l’istituzione di un compenso orario garantito, ma la politica non ha mai avuto il coraggio di andare fino in fondo. Eppure la situazione lo richiederebbe. Non si può infatti negare che i problemi del nostro paese sono stati sì acuiti dalla pandemia, ma sedimentano ormai da decenni.

Tra questi la questione salariale gioca un ruolo cruciale: in questi ultimi trent’anni solo in Italia i salari reali- quelli al netto dell’inflazione- sono scesi. Anche l’incidenza di lavoratori poveri è superiore alla media europea. Un problema questo segnalato anche dal gruppo di lavoro presso il Ministero: eppure il ministro Orlando tergiversa.

Questa situazione è tutt’altro che casuale: a partire almeno dai protocolli del Luglio del ‘92, passando per il Pacchetto Treu e fino al Jobs Act, l’Italia ha puntato su indebolimento delle tutele dei lavoratori in nome di una flessibilità che non sembra aver portato ai risultati sperati, per usare un eufemismo.

In questo contesto il salario minimo rappresenta uno strumento potente per invertire la rotta. Non è un caso se in questi anni quei paesi che non avevano un salario minimo lo hanno istituito, come la Germania, o lo hanno aumentato, come la Spagna.

Uno degli argomenti contro il salario minimo è il suo impatto sull’occupazione. La teoria economica, come ricordano Boeri e Van Ours, stabilisce infatti che sotto certe condizioni l’effetto del salario minimo sull’occupazione è negativo. Di per sé datori di lavoro e operai, all’interno del sistema di mercato, giungono a un salario detto di equilibrio. Distorcere questo equilibrio con un salario minimo comporterebbe, appunto, un calo dell’occupazione.

Già restringendosi alla teoria questa tesi è piuttosto dibattuta. Tra i modelli proposti vi sono quelli in condizione di monopsonio: quando i datori di lavoro non pagano salari ai lavoratori in base a quanto producono, l’introduzione di un salario minimo ha effetti positivi intervenendo su un fallimento del mercato.

Ma è dal punto di vista empirico, soprattutto a partire dagli anni ‘80, che le cose cominciano a cambiare. In particolare con il lavoro di Card e Krueger: siamo all’inizio degli anni ’90 e lo Stato del New Jersey ha recentemente approvato un aumento del salario minimo rispetto alla base federale. Al fine di studiare gli effetti di una tale misura Card e Krueger confrontarono il mercato dei fast food del New Jersey con quello della Pennsylvania.

Prima dell’aumento del salario minimo i due Stati il trend dell’occupazione nei due stati era comparabile, considerata la recessione che affliggeva gli USA in quel periodo. Questo permetteva di utilizzare la Pennsylvania come gruppo di controllo per studiare gli effetti dell’innalzamento del salario minimo. Sfruttando una metodologia al tempo innovativa come il Difference in Difference, Krueger e Card conclusero che il salario minimo non solo non aveva avuto effetti negativi sull’occupazione: l’aveva addirittura aumentata.

In Germania dove il salario minimo è stato introdotto nel 2015 non solo non si è assistito a un calo dell’occupazione, ma sono calate le disuguaglianze salariale ed è aumentato la re-allocazione da aziende con un esiguo numero di dipendenti e stipendi bassi verso aziende più grandi con salari più alti. 

Come fanno notare svariati economisti- tra cui Dani Rodrik, David Autor e Daron Acemoglu– il problema del capitalismo odierno è proprio la scarsità di buoni posti di lavoro. Nel corso degli anni i governi occidentali hanno sempre più indebolito la classe lavoratrice, garantendo un sistema di rendite che sta soffocando la crescita. Attraverso l’istituzione di un salario minimo si permetterebbe alle aziende più produttive di emergere, impedendo ad aziende decotte di rimanere in piedi grazie alla competizione sui salari. I buoni posti di lavoro infatti innescherebbero una spirale positiva, impedendo alle aziende di pagare bassi stipendi e spingendole a investire in innovazione e ricerca per aumentare la produttività. 

Ovviamente vi è anche una componente di valori che condividiamo: come società non siamo disposti a tollerare condizioni di vita misere per i lavoratori. Anche questo ha ragioni, implicitamente, economiche: un incremento dei consumi garantirebbe un maggior benessere per tutti, la creazione di nuovi posti di lavoro e maggiori entrate fiscali per garantire la spesa in istruzione, sanità, infrastrutture.

Se quindi l’istituzione di un salario minimo porta con sé più vantaggi che svantaggi, si insinuano delle considerazioni pratiche. Secondo gli studi un salario minimo pari al 60% del salario mediano garantirebbe effetti nulli sull’occupazione. Nel nostro paese questo significa un salario minimo stimato tra gli 8.25 e i 9.65 euro l’ora, al netto dei contributi previdenziali- anche se l’analisi svolta dagli autori si concentra sul settore manifatturiero. Una cifra quindi più alta rispetto a quanto proposto nei giorni scorsi da Carlo Calenda, che ha successivamente polemizzato con chi gli faceva notare che è una cifra irrisoria. Questa, più che la discussione su salario minimo sì o no, dovrebbe essere la vera questione.

 

 

 

 

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