Lavoro
Cronache televisive. Il posto giusto?
Ogni domenica all’ora di pranzo mi sintonizzo su “Il posto giusto” (Rai3, ore 13:00) un «programma di informazione ed approfondimento sui temi del lavoro: le sue opportunità, i suoi attori, i suoi mercati, i suoi strumenti», come annuncia il sito Rai. Non sono disoccupato e guardo il programma con la curiosità del piccolo borghese conservatore che ha chiuso i propri conti con la vita del lavoro. Ma che non ha dimenticato che in Italia il mondo del lavoro è luogo fisico e mentale ove si esperiscono i più grandi dolori per quelli che occupano il posto più o meno giusto e una fortezza inespugnabile per quelli che stanno fuori e che disperati, vorrebbero entrarci.
Ora, se io fossi un giovane in cerca di lavoro guarderei questo programma con una disperazione aggiuntiva perché invano cerco e trovo informazioni e approfondimento pratici e spendibili. Anzi credo che l’unica che per intanto abbia trovato lavoro è proprio la bella conduttrice (oggi in vaporosa gonna pantaloni blu elettrico che si specchiava nella telecamera con l’aria di una principessa) Rebecca Vespa Berglund.
Lo stile della trasmissione è un mix di romanesimo televisivo, grigiore burocratico e glamour dozzinale come si è soliti ormai incrociare nei programmi standard di questa stanca tivù di stato. Il romanesimo è dato dalle interviste realizzate perlopiù fuori porta, a Pomezia, o per la prevalenza di accenti trasteverini qua e là (quelle fatte “da Nord a Sud” invece testimoniano che a Milano si trova lavoro nel terziario avanzato e al sud nella pasta di Gragnano, che è una specie di truismo al quadrato); il lato burocratico è coperto da Società parastatali che più che a rosicchiare cifre di bilancio pubblico non credo siano intente, oltre a parlare un indigesto anglopovero di prammatica (flexicurity è la parola di oggi); per il glamour in platea c’erano un buffo cineasta di successo in preda a compiaciuti attacchi di riso, un bellimbusto salentino che da economista semi-disoccupato si è convertito felicemente in “antropologo del cibo”, e uno skipper sardo con tutti i riccetti rigorosamente e accuratamente disordinati, ossia tre improbabili manifestazioni del “lavoro astratto” – di chi ce l’ha fatta o sta per farcela, una sorta di salamino appeso per i salti disperati di chi ha fame di “lavoro concreto”. Aleggia nell’aria, nel gioco di luci, negli stacchetti musicali, nelle zoomate delle telecamere, quell’atmosfera di avanzato stadio di defilippizzazione cui è piegato anche un dramma come quello certificato dalle statistiche sulla disoccupazione giovanile italiana.
Rivedrò il programma per pura voluptas dolendi anche domenica prossima compiacendomi in compagnia della conduttrice – garrula e sprizzante vitalità – come se si fosse insieme soggiornanti nell’“Hotel Abisso” con vista sulla disperazione sociale, quell’Hotel Abisso di cui discorreva Lukács chiosando la filosofia di Schopenhauer, pessimista sì, ma in fondo « l’abisso del nulla, il tetro sfondo dell’assurdità dell’esistenza, non fanno che aggiungere un fascino piccante a questo nostro godimento della vita».
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Nella foto in alto “Grand Hotel Budapest” dal film omonimo tratto da “Il mondo di ieri” di Stefan Zweig.
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