Lavoro
Il Ministro Poletti dice la verità
Le frasi di Poletti hanno sollevato moltissime voci polemiche, ma dice solo la verità.
Infatti, da dati recenti – indagine Eurostat sui canali di ricerca utilizzati dagli europei – emerge un quadro su cui vale la pena riflettere.
In Italia, l’84,3% dei disoccupati si rivolge, per la ricerca di un lavoro, ad amici, parenti e conoscenti. In aumento rispetto al passato, nel 2007 era il 74%. In Germania è, oggi, al 39,6%, in Svezia al 25,3%, in Grecia al 94,5% in forte aumento. La media dei 28 paesi UE è del 71,1%.
La fiducia nei centri per l’impiego pubblico, in Italia, è la più bassa in Europa (solo il 25,9% si rivolge a loro) in Germania, molto più alta (75,8%). Le Agenzie per l’impiego private in Italia, quelle alle quali si manda il CV, sono usate solo dal 15,6% di coloro che cercano lavoro, dal 34% in Francia, dal 23,9% nel Regno Unito e dal 22,3% nell’UE.
Inutile evidenziare gli aspetti negativi di questi numeri, se ne parla da tempo e penso siano chiari a tutti, ancor più dopo le polemiche, di questi giorni, sollevate dal Ministro Poletti. Appare chiaro però che, oggi, inviare un CV per cercare lavoro in Italia, sia una modalità meno utilizzata rispetto ad amici e conoscenti. In inglese è chiamato “network” ed ha, guarda caso, un’accezione positiva. In ogni caso il Ministro pare abbia ragione.
In Italia certamente c’è un problema di grave inefficienza dei servizi pubblici per l’impiego e c’è un problema di cultura imprenditoriale che ancora non riesce a dare il giusto valore al Capitale Umano.
Mi preme invece sottolineare alcuni aspetti, positivi, della ricerca “informale”, il passaparola, ma anche i limiti, che questi dati segnalano, per quanto riguarda l’efficienza del nostro sistema d’imprese.
Se i disoccupati cercano lavoro tra amici e conoscenti, evidentemente anche le organizzazioni lo fanno. Ora mi chiedo e vi chiedo, perché?
Proverò a fare un elenco; alcune sono ipotesi di buon senso, altre forse solo mie congetture che spero possono essere, in ogni caso, spunto di riflessione.
1) il primo motivo, per cui le organizzazioni lo fanno, sono i bassi costi delle ricerche informali;
2) le candidature raccolte in questo modo sono referenziate; gli amici e conoscenti ci tengono a non fare brutta figura, ne va della loro reputazione;
3) ricordiamoci che il contesto legislativo è stato, prima del JobsAct, “difficile” per i datori di lavoro e avere dei candidati referenziati abbassava e abbassa, ancora oggi, le probabilità di un contenzioso;
4) raccogliere candidature nella cerchia di amici e conoscenti consente, in modo consapevole o inconsapevole, di avere persone più affini alla propria sensibilità, modo di vedere, cultura, valori ecc.. Barbara Corcoran, business woman e personaggio pubblico negli Stati Uniti, a questo proposito dice: “People want to do business with someone they like. If people like you, they’re going to want to do business with you”. Certo è un assunto che contraddice quanto si sostiene da anni sui benefici della diversity, però mi sembra colga un punto di verità.
Abbiamo visto quali sono i potenziali vantaggi. Ora vediamo i limiti della ricerca informale, facendo alcune premesse.
I profili dei candidati, semplificando, possiamo riassumerli in tre diversi livelli. Il “cosa sanno fare”, “come lo fanno” e di quali attitudini, valori e caratteristiche personali sono portatori e come si adattano alla specifica organizzazione.
Quando si è alla ricerca di un nuovo collaboratore o collaboratrice non sempre gli obiettivi sono gli stessi. Si possono cercare persone con competenze che già ci sono all’interno organizzazione oppure no. Le competenze possono essere specifiche, “tecniche” e relative ad un singolo “settore/campo” (caso più frequente), oppure trasversali e più “soft”. Oppure si privilegiano le affinità. Anni fa si diceva, non so se vero o no, che Renzo Rosso, all’inizio della sua avventura imprenditoriale con Diesel, cercasse solo persone, per qualsiasi ruolo, che potessero essere potenziali clienti dei prodotti dell’azienda, per una precisa scelta imprenditoriale. Poi, per dovere di cronaca, sembra abbia cambiato opinione. Volendo, si potrebbe proseguire, ma certo possiamo dire che gli obiettivi di una ricerca possono essere molteplici.
E’ chiaro a tutti che alcuni di questi obiettivi non siano perseguibili attraverso le ricerche “informali”, ovvero frequentando le partite di calcetto. Se ad esempio si cercano specifiche competenze tecniche è ovvio che ci si potrà anche riuscire in molti casi, ma utilizzare canali formali permetterà, con tutta probabilità, candidature di migliore qualità. Se non altro perché la base, sulla quale effettuare le ricerche, non si limiterà solo alla cerchia di conoscenze individuali ma sarà, inevitabilmente, più ampia. Stesso discorso vale per le competenze orizzontali, più “soft”.
E’ altrettanto chiaro che i costi, rivolgendosi a professionisti della ricerca e selezione, apparentemente si alzano. Ma la realtà è diversa anche perché il costo iniziale, ammesso che sia veramente più alto, è spesso un investimento ampiamente ripagato dalle migliori competenze acquisite con i migliori candidati.
Ma se l’obiettivo è quello di ridurre quell’84% di italiani che ricercano lavoro prevalentemente attraverso amici, parenti e conoscenti , una cosa è certa: ci vorrà un vero cambio di passo della nostra impresa. Quando accadrà, speriamo presto, sarà a beneficio soprattutto loro.
Da questo punto di vista, il futuro ci fa ben sperare, anche perché ci sono molti servizi che si stanno affacciando sul mercato. Utilizzano tecnologia e approcci particolarmente innovativi che potranno aiutare molto nel ridurre il gap tra il nostro paese e gli altri paesi europei, incentivando l’uso delle ricerche più strutturate. Tutto questo anche grazie ad una significativa riduzione dei costi delle attività. Ma su questo argomento preferisco, però, darvi appuntamento ad un prossimo articolo.
Fabrizio Benassi
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