Lavoro

Il dramma della burocrazia. Tutti i particolari in cronaca

14 Gennaio 2017

Quelli che seguono sono appunti da me stesi come sottomano per una conferenza da tenere – avendo avuto esperienza diretta di ben quattro amministrazioni dello Stato -, in qualità di testimone (o forse di imputato) presso un’ aula di discenti di diritto amministrativo dell’Università di Milano, a ciò invitato da un amico Professore in quella Università che è al corrente della mia sulfurea incontinenza verbale ogni volta che si parla di Pubblica Amministrazione.
Ho declinato l’invito della conferenza ritenendomi ormai un “uomo postumo”, ritiratosi dalla vita pubblica e sociale e con la ferrea determinazione di coltivare il proprio giardino letterario per troppo tempo abbandonato per aver inseguito, obbligato dalla “michetta”, proprio le mai amate scartoffie.
Sono rimasti gli appunti, scuciti, slegati, come sono tutti gli appunti, che offro tuttavia alla pubblica lettura ritenendo di fare cosa utile per chi voglia ancora, o perché pungolato da qualche incontro ravvicinato negativo o perché conserva una perversa passione civile per un tema come questo,  comprendere cos’è quel rompicapo della Pubblica Amministrazione.
Gli appunti riflettono una piccola parte del mio materiale accumulato in termini di letture e di annotazioni private. E tentano di rispondere a questa domanda: perché la Pubblica Amministrazione non funziona o funziona male in Italia? Ecco il testo suddiviso in dieci punti o profili sintomatici.

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1. La corruzione
È altissima in Italia. I dati internazionali ci collocano in fondo alla classifica.  È storica, nel senso che è stabilmente presente nel tessuto socio-economico italiano dall’Unità d’Italia. Ricordarsi di Zanardelli e del marmo “botticino” proveniente dal suo bacino elettorale bresciano di Botticino con il quale si eresse l’Altare della Patria. Non è proprio una forma di corruzione in senso stretto questa di Zanardelli, sicuramente non è un esempio di imparzialità e correttezza nell’azione  di un uomo di stato.

Come impatta la corruzione nella  P.A? In maniera devastante: ci si ricordi della massima: “Non è che ci sono le tangenti perché ci sono gli appalti; ci sono gli appalti perché ci sono le tangenti”. Ciò vuol dire che è proprio in funzione delle tangenti che si contrattualizza, si concorsualizza, si erigono i castelletti burocratici. Più appalti più tangenti. Si è cercato di sfuggire in tutti i modi al “sistema” e le vicissitudini del codice degli appalti ne sono una testimonianza.

Non c’è pathos politico attorno al tema della corruzione, ma gli stessi italiani sono avvezzi al clima corruttivo. Hanno inventato termini fumettistici e irridenti come “Tangentopoli” per un grave fenomeno come quello che interessò l’Italia all’inizio degli anni ’90. Ma la stessa efflorescenza linguistica (“mazzette”, “stecca”, “tangente”, “bustarella”) sta a significare che il fenomeno è largamente tollerato anche dai concittadini in attesa del proprio turno.Tema, quello della corruzione, che interessa la P.A. perché è il luogo in cui circolano molti denari, ma la corruzione tra privati non è meno grave (si pensi agli “uffici acquisti” delle Aziende private). Questione di demopsicologia atavica. Di “carattere nazionale”, di “maledizione antropologica”. Nel film “I mostri” (1963!) c’è  Tognazzi che insegna al figlio come mangiare tre brioches al bar e pagarne una, ma passando davanti al Parlamento lo chiama il “Pappamento”. Sono loro, i politici i ladri, non lui.

Circolo della sfiducia tra governanti e governati. Ma la Legge “Salvemini” della specularità  tra Paese reale e Paese legale sconfessa la chiacchiera corrente presso i partiti  populisti per la quale la classe politica sarebbe oltremodo corrotta e la società civile (i cittadini) innocente. “Il Paese legale per un 10% è peggiore del Paese reale; per un 10% migliore; il resto è il Paese.

2. Gli organigrammi informali
Organizzazioni occulte sia laiche che religiose, sindacali, potenti associazioni religiose,  conventicole varie, mafie, massonerie, corregionali (il clan dei siciliani, dei toscani, dei valtellinesi ecc. ), parenti e amanti (e a Roma anche le autorità ecclesiastiche),  tutti questi soggetti spesso costituiscono l’organigramma occulto delle organizzazioni complesse burocratiche. Ventriloquando dentro di esse (anche legittimamente, vedi i sindacati in forza della L.70/78, Statuto lavoratori)  ne determinano gli orientamenti e le “logiche”. Perché? Perché come tutte le organizzazioni, anche quelle informali  hanno un solo scopo: “Sopravvivere” e per fare ciò saprofitizzano  (come il fungo saprofita) l’organizzazione dentro la quale agiscono. Si vedano tutte le aziende di pubblici servizi, ma anche Banche,  Municipalizzate, ecc., generalmente job intensive  (più lavoratori più deleghe, più “mercato sindacale”) dove vige un feroce pansidacalismo. Il pansidacalismo  si muove così. Al fine di incrementare il numero delle deleghe (iscritti), fonte primaria della sussistenza della propria O.S., agisce in maniera collusiva con il dirigente (titolare dell’organigramma formale) al fine di fornire assistenza, tutela, protezione, raccomandazioni ai propri iscritti in termini di premi, trasferimenti, turni leggeri ecc. Il dirigente spesso è proiezione del sindacato stesso,  per la ragione  che il sindacalista è riuscito a piazzarlo in quel posto grazie alle sue triangolazioni con i vertici aziendali, che spesso lasciano “mano libera” al sindacato per diverse ragioni, per collusione, per debolezza intrinseca, per quieto vivere, per altri più inconfessabili motivi.

Il sindacato conquista potere con diverse maniere: la più importante è lo sciopero selvaggio – terrore di qualsiasi dirigente –  che in alcuni ambiti può paralizzare l’intera attività lavorativa,  oppure sfruttando il suo potere di interdizione in materia sanitaria (può denunciare il dirigente alla ASL).  In buona sostanza non è il consenso degli iscritti al  sindacato che determina il potere del sindacalista, ma è il potere del sindacalista che determina il consenso degli iscritti (la crescita del  numero delle deleghe).  Tutto ciò perché il sindacalista è in grado di  condizionare la gestione del personale e per tale ragione di attrarre consensi e tessere. Il sindacato spesso funziona come una struttura mafiosa, nel senso enucleato da Dario Gambetta, studioso di  mafia, ossia “come monopolista della protezione”. Così agendo il sindacalista spaccia “protezione” verso gli iscritti, ed esercita “intimidazione” verso i dirigenti non sindacalizzati o riscuote controprestazioni di favori dai dirigenti appoggiati in maniera occulta dal sindacato o collusi con esso.  Alla fine del processo il potente sindacato diventa un membro effettivo del potere amministrativo, agisce dentro la P.A. ma non appare formalmente, eppure comanda. E molto.

Non tutto il sindacato si muove così, ovvio. Quella descritta sopra è in genere la logica dei sindacati autonomi e di alcuni sindacati confederali. Tuttavia resta in piedi l’obiezione posta di recente da Sabino Cassese che rimprovera ai confederali di aver «riprodotto al loro interno i guasti del sindacalismo autonomo e [di essere  stati] incapaci di far prevalere gli interessi degli utenti su quelli dei dipendenti».(“L’ L’imbuto dello Stato inefficiente”, Corriere della Sera, 3 gennaio 2017)

Ricordare  la legge “Squillaci”:  più grande è il delta tra organigramma formale e organigramma informale più l’organizzazione burocratica è “stressata” e rende meno, perché l’organismo informale tende a sopravvivere a carico di quello formale, “tirandolo” dalla propria parte. Più un’organizzazione è “infiltrata” meno è redditizia per gli scopi cui è finalizzata. Funziona certamente, ma non per la collettività, ma per chi la padroneggia. La mia osservazione diretta mi ha confermato che il saprofita non vuole ammazzare la mucca della quale si nutre. Vuole che sia florida per assicurarsi i lauti pasti quotidiani.

Soluzioni? Alcuni dicono: la Mitbestimmung tedesca, ossia quella pratica di politica industriale che assume nel board amministrativo i sindacati (cogestione). Ma i sindacati italiani del pubblico impiego non sono interessati alla formalizzazione del loro potere, perché quello informale è più redditizio e quello formale comporta delle responsabilità. Meglio gestire nell’ombra, negli organigrammi informali. Ma come può funzionare la Mitbestimmung con la mafia o le massonerie che tuttora hanno occupato molti gangli burocratici? Con  il napalm. Occorre una lotta di liberazione. Quale soggetto politico potrà mai essere interessato a tale lotta?

Problema apparentemente secondario: da tenere in evidenza gli amanti e le amanti all’interno dell’organigramma. Non è una curiosità peregrina: spesso l’amante nell’organigramma formale è uno/a subordinato/a, ma è sovrapposto/a a tutti gli altri in maniera informale, che tutti però conoscono bene e hanno interiorizzato. Quando si dice che certe segretari/e sono più potenti dello stesso manager occorre  vedere quale letto frequentino.

Perciò quando entrate in un organigramma fate questo esercizio mentale: scovare in poco tempo qual è l’organigramma informale, e qual è la sua sfera di potere effettivo. In genere seguire i soldi: chi determina effettivamente le nomine e le carriere interne è colui che comanda effettivamente anche se nell’organigramma formale è uno scalzacani o esterno all’Azienda. Clemente Mimun  nel suo libro autobiografico racconta che in un certo periodo della sua storia  le nomine alla RAI venivano fortemente influenzate  da Muccioli della Comunità di San Patrignano (che triangolava con la Presidente Rai dell’epoca molto presente nella Comunità). Ancora oggi il direttore del Tg1 non si nomina senza il placet del Vaticano. Recentemente le cronache ci riportano che il funzionario del comune di Roma Raffaele Marra, in cella attualmente per inchieste in corso, sia stato assunto alla Guardia di Finanza per intercessione di un monsignore. Di contro in molte aziende le Massonerie imperano.

In genere la “lotta per bande” è la norma all’ interno degli organigrammi. Vero Bellum omnium contra omnes hobbesiano. Terribile. La lotta per bande riguarda anche stratificazioni di funzionariato createsi con il passaggio di politici e sottosegretari. I vecchi contro i nuovi, la destra contro la sinistra, ecc.

3. La competenza/ incompetenza. E la responsabilità
Competenza complessa come attribuzione del decisore amministrativo. Conferenze dei servizi, atti complessi con diversi decisori pubblici interessati al varo del provvedimento amministrativo. Giurisprudenza policroma. La proliferazione di enti, ministeri, dipartimenti, authority conduce spesso a conflitti di competenze. Il caso recentissimo del cavalcavia caduto sotto il peso di un TIR nella statale 36. L’assetto stradale della 36 è di competenza dell’ANAS e anche i piloni del cavalcavia, mentre la strada che vi corre sopra è di competenza provinciale. Mentre i “burocrati” discutevano il cavalcavia cadeva.

Ma anche incompetenza come “esercizio inflessibile del ‘Principio di Peter’ (“Ognuno aspira a far carriera fino a raggiungere il proprio livello massimo di incompetenza”) nella selezione dei quadri dirigenti amministrativi. Una delle cinque piaghe della Chiesa secondo Antonio Rosmini era l’insufficiente formazione del clero. Analogamente nella P.A. la selezione dei quadri dirigenti non è mai stata sottoposta a feroce politica meritocratica. L’imparzialità della P.A. non la voleva la DC che intendeva avere una P.A. debole ed eteronoma per meglio “manovrarla” con le sue spinte  clientelari con le quali formava e manteneva il consenso. Di contro il PCI era totalmente disinteressato alle questioni della P.A. Seppur dotato di un formidabile apparato burocratico al suo interno dove formava il consenso e gestiva il potere interno (dalle “cellule” al CC) era totalmente disinteressato alle vicende della P.A per il suo “leninismo” di fondo (“estinzione dello stato”, vedi più avanti).  La nuova sinistra extraparlamentare era ancora più feroce: “lo stato si abbatte e non si cambia”.

4. Le ideologie e le culture politiche
a) Quella cattolica spinge per il solidarismo e l’evergetismo (termine dell’antichità che risale alle “institutiones alimentariae” dell’imperatore Traiano, che vuol dire assistenzialismo, welfare, keynesismo straccione).  La P.A come “infermeria sociale”: si assumono ciechi, sordomuti, mutilati, soprattutto nei servizi di bassa forza. Si dà giustamente, nel dopoguerra, un destino reddituale  a una umanità dolente, ci si fa carico del disagio sociale… ma a carico del Pritaneo, delle casse pubbliche e stornando la mira dal merito al bisogno. In generale la DC non darà forza alla macchina amministrativa. Una Amministrazione indipendente e imparziale (art. 97 C.) minerebbe il potere di una compagine politica che invece tende, attraverso la pratica clientelare e l’aggiramento delle norme, a garantirsi un vasto consenso discriminatorio: i miei clientes rispetto all’universalità dei cittadini.

b)  Quella di sinistra è ostile a qualsiasi riforma amministrativa, non ha cultura riformista, perché ha inseguito  il sogno chiliastico della palingenesi rivoluzionaria, fedele al principio marxista-leninista della “estinzione dello stato”, o  convinta che la macchina statale segua le intenzioni dell’autista al potere (la “cuoca di Lenin”). E’ facilissimo ricostruire l’avversione ideologica della sinistra estrema italiana contro il riformismo. Ampia bibliografia sull’argomento. Si veda solo un esempio: la polemica sorda dei sindacalisti rivoluzionari, contro il cosiddetto “ministerialismo” di Turati. Eppure solo grazie all’attenzione riformista dei turatiani si ebbe la migliore legislazione sociale a favore dei ceti sociali svantaggiati oltre che, a livello locale,  l’avvento del municipalismo, che, ricordiamolo, è uno degli elementi portanti della straordinaria storia di successo del riformismo milanese, da Caldara, Greppi, Aniasi a … Pisapia. Milano è la città dove competizione e cooperazione, merito e bisogno, meglio vengono assortiti  e declinati. A Milano fanno funzionare tutto, anche la burocrazia, come i tedeschi dell’est riuscivano a far funzionare il comunismo… Importanza dunque di una “tradizione amministrativa” che, per esempio, a Roma è del tutto assente, essendosi perse del tutto le buone prassi di Ernesto Nathan.

Ma i socialisti massimalisti a vario titolo ( Arturo Labriola, lo stesso Gramsci) furono disinteressati nel migliore dei casi, o  avversi nel peggiore, a ogni politica di intervento nella macchina dello Stato,  fedeli al principio che “Lo stato si abbatte e non si cambia”.  ( Bobbio nel “Profilo ideologico del Novecento” scrive che furono i riformisti e non i massimalisti ad aiutare concretamente con legislazione idonea  il proletariato).

Lo stesso socialista massimalista Mussolini, totalmente privo di cultura di governo e avverso per formazione politica al riformismo turatiano,  quando arriva nella stanza dei bottoni ha l’accortezza di dotarsi di tecnocrati che prende dal bacino liberale nittiano (Alfonso Saverio Nitti) o da altre culture politiche. Nittiano è  De Stefani (cui si deve la Legge di contabilità generale dello stato del 1926 tuttora in vigore) mentre  Beneduce che fonderà l’IRI proveniva dal socialismo. (Chiamò sua figlia Idea Socialista, che andò in sposa a Enrico Cuccia).

5. I fattori mentali della tradizione culturale.
Cultura politica. Quando dico in giro che l’ENA (École Nationale d’Administration) francese venne istituita nel secondo dopoguerra con l’intervento fattivo e pienamente collaborante di Maurice Thorez (PCF) e  De Gaulle vedo gli occhi dei miei interlocutori sgranarsi.  Perché un comunista francese collabora con un militare di destra alla fondazione di un istituto oligarchico ed elitario come l’ENA? La risposta è semplice:  perché in Francia c’è una cultura centralistico-amministrativa che risale a Colbert e che venne acquisita toto corde dai giacobini rivoluzionari (contro le ipotesi federaliste girondine) e quindi dagli eredi dei giacobini, ossia i comunisti, oltre che, ancor prima, da quel giacobino militare che fu Napoleone Bonaparte che la diffuse in tutta Europa.  Per i comunisti francesi l’apparato statale è ritenuto strategico. Diverso l’approccio culturale dei comunisti italiani, ma occorre sottolinearlo.

In Italia il progetto di riforma della Pubblica Amministrazione con l’istituzione di una Scuola Superiore sul modello francese, stava a cuore solo a qualche giurista socialista (Massimo Severo Giannini) o laico-azionista-progressista (Cassese). La sinistra? Non pervenuta. La SSPA nasce negli anni ’80. Ancora oggi è istituto negletto. Ha avuto me come allievo in quel di Bologna.

Ricordarsi che l’unico centro di eccellenza universitario italiano (prima della Bocconi, privata) è la Scuola Normale di Pisa. Fondatore? Il militare giacobino Napoleone Bonaparte.

Putnam e il suo studio sul “rendimento” delle istituzioni. La tradizione civica nelle regioni italiane. La tradizione cooperativo/collaborativa delle regioni del Nord avverso al familismo amorale di quelle del Sud. L’avversione generalizzata tuttavia sia al Nord che al Sud alla meritocrazia.  In subordine: l’incapacità anche dal punto di vista “tecnico” (per assenza di idonei strumenti di misurazione) della remunerazione dei meriti. Come misurare l’efficienza di un Pubblico Ministero, di un Tribunale, di una Università di un singolo prof? Young e Abravanel a confronto. Anche qui manca una cultura della misurazione. L’avversione per i test INVALSI ecc.

6. Il clientelismo. Il familismo,  il familismo amorale, il cronyism. Il particolarismo in genere.
L’eredità democristiana, ma anche fascista :  è con il fascismo che la macchina statale si meridionalizza, non prima. Ai tempi di Giolitti o Quintino Sella  il prototipo dell’impiegato statale era Monsù Travet , diventato eroe eponimo dell’impiegato pubblico, ossia un piemontese. Questione meridionale e questione amministrativa. Cassese. Vasto dibattito tuttora in corso. Il libro di Cassese omonimo  può servire da guida.

Qui basta un semplice estratto per comprendere cosa voglia dire riformare la pubblica amministrazione. Il veronese Alberto De Stefani propose a Mussolini nel 1929  un progetto di riforma della P.A. in direzione di far lavorare più e meglio i burocrati e di distribuirli razionalmente sul territorio nazionale. Questa la risposta che ne ebbe da S.E. Benito Mussolini , riportata da De Stefani nel suo Una riforma al rogo e ripresa da Cassese nel suo volume citato (pp.90-91)

Le vostre proposte farebbero diminuire l’assorbimento negli impieghi di Stato dei dipendenti e dei laureati del Mezzogiorno con danno del suo proletariato in colletto bianco e cravatta. Quella gente è temibilissima, possiede una istintiva genialità propagandistica che fa presa in ambienti dove le relazioni di parentela e di amicizia hanno grandissimo peso nel creare correnti passionali, rapide a diffondersi quando siano lievitate dai delusi della borghesia che,  nel Sud, conta assi più che a Milano e a Torino. Vi si deve adottare la politica del massimo numero di posti nella burocrazia dello Stato se non vogliano tirarci addosso una insurrezione; quella della fame – dico fame – degli intellettuali, la più difficile a placarsi. D’altronde è anche un dovere il porvi rimedio.

Parentopoli. Ragnatele di parenti nella P.A. Segno della mortificazione del merito. Isomorfismo culturale di origine cattolica (Amalia Signorelli: “C’è chi può e chi aspetta”). “Avere un Santo protettore in cielo e uno in terra” per sfangare l’esistenza. Alto indice endogamico nella P.A. Intere “dinastie” familiari si succedono da decenni. E’ un peccato assumere i figli? In una repubblica democratica sì. Solo nelle monarchie,, in cui le cariche si compravendevano o si ereditavano, è la norma. In ogni caso le endogamie familistiche si sottraggono alle selezioni meritocratiche. Può anche essere bravo “Il figlio di…” ma se non è mai stato selezionato, o se lo è stato in maniera fraudolenta, abbiamo inferto un vulnus alla intera struttura burocratica.

La “raccomandazione” come “fatto sociale totale”,  Mauss e Zinn. Problema enorme. La raccomandazione segue il soggetto dall’assunzione alla pensione. La raccomandazione è in continua manutenzione. Aneddoti.

Cronyism is the practice of partiality in awarding jobs and other advantages to friends or trusted colleagues, especially in politics and between politicians and supportive organizations. For instance, this includes appointing “cronies” to positions of authority, regardless of their qualifications

Il cronyism è il clientelismo con nome anglosassone. Lo uso per indicare certe forme di comparaggio (clientelismo di amiconi) dove non necessariamente v’è scambio politico. Il ricorso ai corregionali per esempio, o la pratica romana del “ciònamico”. Ecc. Si veda Zinn, La raccomandazione dove il termine di cronyism vi è ampiamente usato. Vedere anche il libro di Robert de Jouvenel, La république des camarades (dei compari), del 1914, sui maneggi della Terza Repubblica in Francia.

Natura distruttiva del clientelismo. Ma c’è chi lo difende (anche il nepotismo per la verità) . Vi sono saggi che lo magnificano come elemento decisivo per lo sviluppo, per esempio in Abruzzo. Una sorta di sviluppo condotto dall’alto con aggiunte di paternalismo. Remo Gaspari per l’Abruzzo e Giulio Andreotti per la Ciociaria sono di solito indicati come esempi di clientelismo virtuoso, ossia capace di determinare lo sviluppo dall’alto con pratiche di utilizzo della propria carica politica per favorire il proprio collegio elettorale (sistema Zanardelli) .

Tutti questi fenomeni impattano con la P.A, positivi o negativi,  sono contrari al principio dell’imparzialità della P.A. (art. 97 C.).

7. La giurisprudenza policroma e la colluvie legislativa

La superfetazione del diritto amministrativo ma anche l’articolazione bestiale dei TAR. Il “processo” amministrativo tende a risucchiare tutti gli altri aspetti normativi e a invadere ogni ambito. L.241/90 arriva tardi, ma è tuttora inapplicata. É forse il problema del cattivo funzionamento della P.A. il diritto amministrativo stesso? Occorre ricorrere alla common law? Cassese nello “Stato introvabile” dice che non è questo il problema, tanto è vero che anche ordinamenti common law convergono di recente (dagli anni ’80)  nel diritto amministrativo. Esempi tratti dal libro di Cassese. Lo stato introvabile.

8 La persistenza degli aggregati.
La razionalizzazione  della P.A  è un problema immenso, un “vaste programme” direbbe De Gaulle,  perché si tratta di operare a cuore aperto e con il paziente privo di anestesia. Ogni processo di razionalizzazione della P.A  in Italia si arena. Vedere l’annosa questione della semplificazione e soppressione degli Enti pubblici inutili  o delle leggi superflue (esisteva fino a poco tempo fa “L’opera garibaldina” o qualcosa del genere. Condurre specifiche ricerche sul tema non è difficile). Il caso del Ministro Calderoli (Ministro orwelliano  della semplificazione!) che pubblicamente brucia degli scatoloni con dentro “le leggi superflue”; ma che non riesce a spostare un solo forestale calabrese.

Ogni riforma va a cozzare contro i “muri” della burocrazia. Le riforme si possono fare con, senza, ma mai contro la burocrazia. Essa si ribella e farà di tutto per sabotarla. Se il ceto politico non ha la forza sufficiente per attuarle è meglio lasciar perdere o allearsi con quella parte di burocrazia “capace e meritevole” che c’è, ma che occorre cercare con la lanterna come faceva Diogene. Seguire la riforma Madia o quella di Boeri sulla dirigenza Inps. Quest’ultimo si muove in un Vietnam. A volte fuori contesto a volte ficcante come un chiodo. Forse il miglior acquisto del governo Renzi.

Gli apparati esistono, insistono, persistono e soprattutto resistono. Si veda il caso delle Prefetture, ormai totalmente svuotate delle loro “funzioni storiche”, che resistono a ogni passaggio di regime. Per ben due volte ha avuto al vertice del Ministero dell’interno un Ministro (Maroni) odiatore del centralismo ministeriale cavourriano e mai sono state sfiorate da venti di abolizione. Per l’abolizione delle Prefetture, il grido di Luigi Einaudi del 1944: “Via il Prefetto!” Inascoltato.

Per altro verso: le Province abolite? La città metropolitana come progetto di Legge risale agli anni ’70! L’assorbimento delle Province nella città metropolitana è avvenuto lentamente, ma la pubblica opinione poco sa che le Province sono state abolite come “organi elettivi” (e che per farle sparire del tutto occorre un intervento a livello di Carta costituzionale, clamorosamente bocciato nel referendum del 4 dicembre scorso) e che dell’apparato amministrativo residuale non se ne cura nessuno. Persistenza degli aggregati. Fenomeno da indagare con cura. Lì si annida il nemico delle riforme e dell’efficienza amministrativa.

La legge di Pareto della “persistenza degli aggregati” occorre tenerla in giusta evidenza: perché è la Legge di ogni organismo burocratico, che ha un solo telos: sopravvivere fidando soprattutto sul carattere effimero dei ceti politici governanti (63 governi in 70 anni!). Motto dei burocrati, a ogni livello, dai comuni ai ministeri: “I politici cambiano, noi restiamo”.

9. La scarsa o nulla preparazione del personale.
La legge del precedente impera e spesso gli impiegati sono  messi allo sportello con il principio “o affoga o impara a nuotare”. Insensibilità dei vertici circa i temi dell’addestramento preventivo. Una delle cinque piaghe della Chiesa secondo Antonio Rosmini era l’insufficiente formazione del clero, così nella burocrazia italiana. Emarginazione della cameralistica da parte della giurisprudenza e quindi prevalenza degli et ab hic et ab hoc (formalismo dei giuristi). Una volta emarginate le scienze camerali si passerà direttamente al management directory. Dal latinorum all’anglopovero.

10. Varie ed eventuali

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Bibliografia essenziale
S. Cassese, Il sistema amministrativo italiano, Il Mulino, Bologna 1983,  fuori catalogo

L.Torchia, Il sistema amministrativo italiano, Il Mulino, Bologna 2011

A. Frassineti, Misteri dei ministeri, Einaudi, Torino 1973

L. Einaudi, Via il Prefetto! (1944)

S. Cassese, Lo stato introvabile. Modernità e arretratezza delle istituzioni italiane,  Donzelli, Roma 1998

S. Cassese, Questione amministrativa e questione meridionale, Giuffré, Milano  1977

R.Putnam, La tradizione civica delle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993

D. Zinn, La raccomandazione, Donzelli 2001

M. Mauss, Saggio sul dono, Einaudi, 2002

E. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna 1976

M. Young, L’avvento della meritocrazia, Edizioni Comunità, Milano 1963

R. Abravanel, Meritocrazia, Garzanti, Milano 2012

A.Signorelli, C’è chi può e chi aspetta, Liguori, Napoli 1986

V.Pareto, Compendio di sociologia generale (sulla persistenza degli aggregati e l’istinto delle combinazioni). Einaudi, Torino 1978. Vedi anche la copia in rete

 

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