Lavoro
Una legge per licenziare nel pubblico c’è già (da anni). Basta usarla
Non capisco e, per una volta, non mi adeguo. Premessa necessaria. Appartengo ai “ruoli” della pubblica amministrazione con un contratto da dirigente tecnico a tempo determinato. Quando mi scade, spetta all’amministrazione stessa, che nel mio caso è il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, mettere a bando il mio posto e, attraverso una valutazione comparativa, decidere se rinnovarmelo o meno. Guardo dunque al corpaccione della burocrazia e all’amministrazione (distinguo: la burocrazia sta all’amministrazione come Fantozzi sta a Bill Gates) con un occhio da “avventizio”. Soprattutto, guardo alle norme per quello che sono, non per quello che vorremmo fossero: in fondo, è il mio mestiere. Sono Mr Wolf, risolvo problemi.
Per questo motivo, il dibattito su Job Act, decreti legislativi di attuazione e pubblico impiego mi lascia di stucco. Job Act e pendagli vari, presenti e futuri, sono inapplicabili a noi poveri travet. Non perché si sia immuni dai licenziamenti o dai provvedimenti disciplinari. Ma, al contrario, perché siamo, almeno sulla carta, licenziabilissimi e sanzionabilissimi, sulla base delle norme che regolano il pubblico impiego. Aggiungo: da sempre, ma con maggiore chiarezza (e fuori dalle pastoie contrattuali) da quando il Ministro protempore Renato Brunetta riformò il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, attraverso la legge 4 marzo 2009, n. 15 e il successivo decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150. Aggiungo: il 165/2009 èuno dei testi normativi tecnicamente migliori usciti dalle spesso sciagurate penne dei legislatori della II Repubblica.
Leggere, per credere, l’intero Titolo IV, dedicato alla disciplina dei rapporti di lavoro… Le cause di licenziabilità sono espresse all’articolo 55-quater, che vale la pena riportare per esteso:
“1. Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo (e qui si applica il codice civile, art. 2119 e la legge 15 luglio 1966, n. 604, art. 3 n.d.R) e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi:
a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia;
b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione;
c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio;
d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera;
e) reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui;
f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l’estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro.
2. Il licenziamento in sede disciplinare è disposto, altresì, nel caso di prestazione lavorativa, riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l’amministrazione di appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione di insufficiente rendimento e questo è dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all’articolo 54“.
Le varie amministrazioni, in base al comma 2, possono dunque ulteriormente implementarle o declinarle, sulla base delle proprie specificità, attraverso l’adozione di “codici di comportamento” o altri strumenti normativi. E qui, casomai, sta il problema: parlare della così detta “riforma Madia” nei termini in cui se ne parla è errato, perché in materia di licenziamenti andare a toccare ancora le norme di legge significa pestare l’acqua nel mortaio, e forse (anzi, tolgo il forse), ben più proficuo sarebbe tenere monitorati i provvedimenti “di dettaglio”, a volte loro sì “gassosi” e tali da consentire, ai magistrati del lavoro, un facile tiro al bersaglio.
Se guardo al mio comparto, ad esempio, licenziare un dirigente scolastico o un amministrativo è piuttosto semplice, perché tutto il corredo normativo è aggiornato. Licenziare un docente per le cause dettagliate dal 165/2001, pure. Ma farlo per “asineria” diventa un’impresa titanica, perché la disciplina “di dettaglio” manca o, quando c’è, è vetusta, visto che il Testo Unico delle leggi sulla scuola risale al 1994, ed è una raccolta di norme precedenti, alcune delle quali risalenti, “per li rami”, ai famigerati anni 70…
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