Lavoro

Ieri era domenica e oggi è lunedì: e allora?

1 Maggio 2017

Ieri era domenica, giorno festivo per alcuni e giornata di lavoro per altri.

Non mi riferisco agli “altri” che lavorano sempre di domenica, ma a tutti quelli mirabilmente descritti qualche anno fa (era il 2009) da Massimo Lolli nel romanzo aziendale “Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio”. Mi riferisco alla gente in carriera come Alberto Bonin, il protagonista del libro di Lolli, che da top manager, si immedesimava nel ruolo di direttore generale appunto fin dalla domenica pomeriggio.

Quella di anticipare il lunedì alla domenica pomeriggio è una prassi diffusa, non solo nel lavoro manageriale, che stride con la sensazione che ti assale quando ti ritrovi cinquantenne disoccupato e alla vana ricerca di un lavoro da molti mesi. È la sensazione che prova anche Alberto Bonin, quando la selezionatrice con cui sta sostenendo l’ennesimo colloquio di lavoro gli confessa: «Io comincio a sentirmi da lunedì già la domenica pomeriggio». Mentre la ascolta, lui tra se pensa che «veramente io il lunedì mi sento come tutti gli altri giorni. Di merda».

Gli “altri” a cui mi riferisco non sono nemmeno quelli della generazione di imprenditori mirabilmente narrata da Marco Paolini e i Mercanti di Liquore in una canzone che fa così: «Lo dico sempre agli operai: “Adesso basta, Andate a casa! È tardi! Domani è lunedì…”. Ogni domenica la stessa storia; fino alla Domenica Sportiva me li trovo tutti qua, non c’è niente di straordinario, qui è sempre aperto come in oratorio. Fin che c’è merce da consegnare, c’è speranza, poveri ragazzi…a casa è peggio. Li fanno lavorare gratis». Questa canzone, guarda caso, si intitola “Domani è lunedì”.

E oggi, appunto, è proprio lunedì: è il Primo Maggio e per la 128° volta in Italia si celebra la Festa del Lavoro.

Lo celebreranno anche le persone di mezza età che si rivedono in Alberto Bonin e i piccoli imprenditori, gli artigiani e gli operai che rimpiangono i tempi in cui si stava in fabbrica fino alla Domenica Sportiva.

E allora? È sotto gli occhi di tutti che il lavoro stia attraversando un periodo di profonda trasformazione. Sono meno evidenti le ragioni che rendono tale trasformazione diversa da tutte le altre.

Prima ragione – Trasformazioni del lavoro senza rappresentanza

Negli ultimi 128 anni, il lavoro ha cambiato pelle molte volte. Tutta la società e in tutte le sue articolazioni ha sostenuto il progresso e ha fatto il possibile affinchè anche il lavoro partecipasse ai vantaggi dello sviluppo tecnologico e scientifico, attraverso più elevate retribuzioni, migliori condizioni di lavoro, maggiori tutele e così via.

Oggi, una parte significativa dei cambiamenti che investono il lavoro è guidata dalla mano evanescente della tecnologia, che impatta sui mestieri consolidati e tradizionali e introduce nuove figure professionali, senza trovare rappresentanze sindacali (quelle datoriali incluse) in grado di accompagnare la trasformazione.

È per questa ragione che i lavoratori sperimentano una profonda solitudine e anche gli imprenditori non vivono situazioni molto migliori.

Seconda ragione – Trasformazioni del lavoro nell’indifferenza generale

Un bel libro che descrive le trasformazioni del lavoro technology driven è stato scritto da Riccardo Staglianò, “Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro”.

Stanno scomparendo intere famiglie di mestieri, senza che questo fenomeno generi allarme negli altri segmenti del mercato del lavoro e nella società in generale. Insomma, tutto accade nella più assoluta indifferenza e, per certi aspetti, nella più totale innocenza.

Dopo aver letto i primi capitoli del libro, viene quasi immediato il paragone con il «Prima vennero» di Bertold Brecht (o di Martin Niemöller, poco importa in questo caso):

«Prima venne Amazon, e fui contento, perché i librai non mi facevano lo sconto e nelle librerie non trovavo sempre disponibile tutto quello che volevo.

Poi venne Uber, e fui sollevato, perché pensavo che i taxisti fossero una casta retaggio del Novecento.

Poi vennero i Mooc, e non dissi niente, perché i professori universitari sono tutti baroni ed era ora di finirla e passare a un sistema meritocratico.

Poi vennero i robot collaborativi, e stetti zitto, perché gli operai sono roba dell’altro secolo e ancora oggi pretendono troppo (perfino di avere un figlio dottore, come cantava Pietrangeli).

Poi vennero a sostituire il mio lavoro, e non c’era più nessuno che lavorava attorno a me»

Terza ragione – Trasformazioni del lavoro in tempi compressi

Un aspetto dirompente delle trasformazioni in atto è che sono troppo frequenti, si diffondono in modo troppo veloce e non lasciano il tempo per imparare cose nuove e disimparare (almeno in parte) quelle vecchie.

I tempi compressi tra un cambiamento e l’altro rischiano di generare pressioni al cambiamento sui lavoratori che possono eccedere le loro capacità e volontà: una parte di loro non riuscirà a cavalcare il nuovo e di conseguenza verrà risucchiata verso il basso.

È come dire che c’è troppo poco tempo per la doppia fatica che viene richiesta ai lavoratori.

Anche ammesso che tutti i lavoratori abbiano la capacità e la forza per fare la doppia fatica di imparare (il nuovo) e disimparare (parte del vecchio), sarà conveniente farlo?

In una società che invecchia e in cui si ingrossano le file dei cinquantenni come Alberto Bonin, il numero minore di anni di tempo professionale davanti a sé riduce la convenienza a fare rilevanti investimenti per acquisire le competenze necessarie per rimanere impiegabili (o tornare ad esserlo).

Questo punto apre il delicato tema delle nuove politiche di welfare ancora tutte da inventare, perché nessuna società può permettersi di abbandonare i lavoratori che, senza colpa, hanno raggiunto un’età che non rende conveniente per nessuno farsi carico della loro formazione ricorrente.

Una delle soluzioni sta nel rispondere al bisogno di competenze di tutti i lavoratori (di oggi e di domani) con modelli adatti ai processi di apprendimento ricorrenti e frequenti: la formazione «Plug&Play», capace di trasferire «quanto basta» delle competenze che servono.

Quarta ragione – Trasformazioni del lavoro che non risparmiano (proprio) nessuno

La somma dei fenomeni appena descritti porterà al progressivo assottigliamento dei segmenti di mezzo del mercato del lavoro: in molti saranno risucchiati verso il basso, con lavori meno ricchi di contenuto, con basso reddito, con minori opportunità di crescita e con poche soddisfazioni; in pochi (o comunque in numero inferiore) accederanno alla parte alta del mercato del lavoro, con job ricchi di contenuto e di qualità (economica, estetica, relazionale). Insomma, andremo verso un mercato del lavoro sempre più polarizzato.

La polarizzazione investirà tutti i mestieri, nessuno escluso. Le classiche divisioni sociali basate sul mestiere tenderanno a scomparire. Le società cambieranno volto. Gli ascensori sociali saranno velocissimi e probabilmente ciascuno di noi potrà sperimentare ascese e discese nel corso della vita professionale.

Quanto più le trasformazioni saranno democratiche e tanto più saranno pervasive, tanto più probabile sarà affrontare seriamente il problema, perché saremmo arrivati vicini al «Poi vennero a sostituire il mio lavoro, e non c’era più nessuno che lavorava attorno a me».

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