Lavoro
I Millenials viziatelli mi hanno francamente rotto le palle
Settimana scorsa mi sono imbattuto, a Milano, nella manifestazione studentesca. Poi ho visto le immagini dei cartelli sventolati da questa vivida gioventù e ho provato tristezza.
Non entro nel merito della questione “alternanza scuola e lavoro”, che mi pare fosse uno dei bersagli della protesta, anche se da quanto ho colto da alcune serie realtà mi è parso di capire che ha dato buoni frutti; per le imprese e per gli studenti. Farò solo una piccola narrazione autobiografica, a partire dalla foto di uno di quei cartelli, in cui una graziosa studentessa scrive: “Fare il lavapiatti NON è formazione”.
Premetto: mi sento vecchio a scrivere quello che scriverò qui ma, tant’è: vecchio, ormai, lo sono (a proposito, noi nati negli anni ’70, come siamo classificati?).
Ho iniziato a lavoricchiare da piccolo, d’estate, in negozio da mio zio: mercatino e gelateria. Avevo 11 o 12 anni; lavoro minorile, si direbbe oggi con disappunto: garzone, lavapentole, spatole e vaschette, gelataio al banco.
Un’esperienza bellissima; ho conosciuto un sacco di persone di ogni età e ho iniziato da subito a capire che il genere umano é vario. E non sempre è piacevole.
Con quegli spicci che mi guadagnavo – per me allora un luccicante tesoro – mi compravo libri, i colori per dipingere le magliette con davanti la faccia di Jimi Hendrix e dietro la scritta “Scuse me while I kiss the sky“ (che regalavo o, spesso, vendevo), le felpe – Best Company se non ricordo male – allora di moda. Ma, soprattutto, imparavo che per avere soldi in tasca, se non si è dei banditelli in erba (tendenza che, lo ammetto, mi ha all’epoca attratto e insidiato: per questo i miei mi spedirono a lavorare!), si deve fare una cosa: faticare.
Poi, al tempo dell’Università, mi son messo a fare il furgonista. Ritiravo materiale elettrico un giorno a settimana a Milano e nel suo hinterland. Anche qui mi divertivo dannatamente; imparavo strade nuove, scorciatoie, percepivo “le strutture dello spazio antropico” e la morfologia urbana reali che intanto studiavo sui libri di Gianfranco Caniggia e di Aldo Rossi, conoscevo posti belli e altri di merda, capivo che il “lavoro” non di concetto o intellettuale ha una sua grande, sconfinata, nobiltà. E, soprattutto, insegna molto: organizzazione, resistenza alla fatica, necessità di adattamento, pragmatismo e pazienza.
Inoltre, giusto per ricordarlo, guadagnavo il giusto per quanto facevo. E mi pagavo i soliti libri, il costoso materiale per lo studente di architettura e qualche sfizio.
Tutto ciò mi è stato di un’utilitá inimmaginabile quando, terminati gli studi, mi sono messo da subito a-lavorare-per-quello-per-cui-avevo-studiato (incontrando Maestri in una bellissima esperienza universitaria), facendo lavori umili e conservando tutto il bagaglio di esperienze che l’aver lavato pentole, fatto gelati e caricato furgoni mi avevano donato. Esperienze, insomma, che mi hanno “formato”.
A questi giovani, che usano la parola “operaio” come se fosse uno stigma, che non lavano i piatti perché non sanno manco come si inizia a farlo e che si riempiono la bocca di frasi fatte dico solo una cosa: rivendicare diritti – sacrosanti – è il termine di un percorso che vede prima lo sforzo di praticare doveri.
E io oggi, tra un laureato che ha fatto prima il lavapiatti e uno che spiattella dodici titoli, senza aver capito un accidente della vita, non ho dubbi: scelgo il primo.
Twitter: @Alemagion
Facebook: alessandro.maggioni.792
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