Lavoro

Gli effetti non detti del Jobs act

4 Luglio 2015

Si parla tanto degli effetti positivi del Jobs Act per l’aumento dell’occupazione, anche se si discute ancora se ciò non derivi piuttosto dai benefici contributivi previsti dalla Legge di Stabilità. Meritano però una riflessione anche quegli effetti (non detti ma non per questo meno importanti) del Jobs act che andranno, in un certo senso, a condizionare il comportamento dei lavoratori a tempo indeterminato, a modificarne la condotta lavorativa in senso “antropologico”.

Il contratto a tutele crescenti, proprio perché consente una più facile risoluzione del rapporto lavorativo, non può che condizionare sin dall’inizio il lavoratore nel suo approccio al lavoro, rendendolo più produttivo e corretto nell’espletamento della prestazione rispetto al passato. Se prima il lavoratore a tempo indeterminato, forte della tutela dell’art. 18 Stat., poteva permettersi il lusso di rallentare il ritmo lavorativo al limite della fiacca (sapendo che tale comportamento difficilmente avrebbe determinato il licenziamento) o, al primo banale screzio, di comunicare una artefatta malattia depressiva per certificare solo la propria intoccabile posizione, oggi deve avere la consapevolezza che un suo voluto scarso impegno o una sua furba condotta potrebbero indurre il datore di lavoro a estrometterlo dalla azienda senza grossi rischi.

L’effetto (non detto) del Jobs act dovrebbe quindi essere quello di responsabilizzare i lavoratori a tempo indeterminato (quelli a termine, giocoforza, lo erano già se aspiravano al contratto sine die), migliorandone la produttività. Non quello (già ampiamente detto) di aumentare i licenziamenti quando la tappa della security appare lontana.

Ma se l’effetto deve (o dovrebbe) essere questo, come ottenere una maggiore responsabilità e produttività da parte di quei lavoratori già in organico a cui non si applicano le tutele crescenti? In un certo senso, il legislatore, pur nella discutibile scelta di non estendere a tutti le tutele crescenti, risponde a tale obiettivo consentendo al datore di lavoro di modificare le mansioni del lavoratore, con meno vincoli rispetto al passato. Altra tappa da non sottovalutare del Jobs act è infatti quella relativa alla possibilità concessa al datore di lavoro di modificare unilateralmente le mansioni del lavoratore, senza più il limite della equivalenza rispetto a quelle precedentemente svolte con l’effetto indiscutibile di ottenere una prestazione più utile e confacente alla organizzazione aziendale. Quindi, anche i lavoratori non coinvolti nelle tutele crescenti non possono dirsi estranei alla rivoluzione copernicana del Governo Renzi finalizzata anche ad ottenere, come detto, una maggiore produttività dei lavoratori a tempo indeterminato rispetto al passato e non solo (almeno si spera)  una loro piu` semplice estromissione dalla azienda. Migliorare il rendimento dei lavoratori in forza, assegnandoli al posto giusto nell’organizzazione, in un’ottica quindi di flessibilità “interna” piuttosto che ”in uscita”, dovrebbe essere l’obiettivo implicito e davvero “laburista” del Jobs act da attuare in ogni realtà lavorativa anche con la partecipazione proattiva del sindacato.

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