Lavoro
Generare lavoro per tutti: perchè è ancora possibile a partire dalle città
Immaginare un programma per la creazione di posti di lavoro destinati ai ceti medi: questa mi sembra la sfida centrale del nostro tempo, sia per chi si occupa di politiche pubbliche (policy) sia per chi abbia l’ambizione di occuparsi di politica (politics). Allo stesso tempo, immaginare che questo sia possibile a partire dalle aree urbane mi sembra la sfida più rilevante per chi amministra, fa politica, lavora o fa ricerca a Milano, unica area urbana che è nelle condizioni di poter indicare una strada al Paese.
È indubbio, infatti, che il grande, vero nodo politico e sociale del presente, in Italia, in Europa e nei paesi ad economia matura, sia esattamente questo. Ovvero le aspettative di vita, di reddito e di ruolo di quella grande parte della popolazione in età lavorativa, mediamente scolarizzata, largamente socializzata all’utilizzo delle nuove tecnologie e della rete, profondamente urbana nei modelli di consumo e negli stili di vita. Si tratta di quella classe media che, per la prima volta dal dopoguerra ad oggi, registra aspettativa di vita e di reddito decrescenti rispetto a quelle delle generazioni precedenti, destinata a consumare ricchezza e risparmio piuttosto che crearne, caratterizzata da bassi tassi di fertilità (e non sempre per scelta), instabile nei comportamenti di voto ma pure disponibile alla solidarietà e alle forme di partecipazione collaborativa nello sviluppo delle comunità di riferimento, disponibile alla mobilità territoriale, ricca di competenze e skills del tutto nuovi, come abbiamo potuto sperimentare in questi anni anche a Milano.
Ogni agenda di governo, che sia questa urbana o nazionale, non può prescindere dal mettere al centro della propria azione e del disegno delle politiche questa parte maggioritaria di cittadini in età lavorativa, senza un’occupazione o un’aspettativa di occupazione soddisfacente.
Infatti l’instabilità politica e le minacce alla coesione sociale oggi dipendono non tanto dalle leggi elettorali o dai fattori esogeni (quali l’immigrazione), ma dalla difficoltà ad associare in un progetto di governo e di sviluppo del paese questo ceto medio in cerca non solo di reddito ma anche di status.
Sono persone che si concentrano prevalentemente in quelle aree urbane che hanno vissuto prima l’espulsione dell’industria dal tessuto cittadino a fine anno 70, poi il boom dell’economia dei servizi, ad alto e a modesto valore aggiunto, negli anni 80 e 90, e che oggi si domandano se le acquisizioni della tecnologia e della scienza, possano o meno creare nuove opportunità di sviluppo e di convivenza.
Un’utile traccia di lavoro viene dai ricercatori del Center for an Urban Future di New York che hanno messo al centro di quello che hanno significativamente chiamato “Middle Class Jobs Project” proprio le nuove economie urbane come chiavi per generare nuova occupazione per quei ceti medi in crisi di reddito e di status, afflitti da “aspettative decrescenti” e privi di riferimenti politici stabili.
Il contesto milanese può essere area di sperimentazione di “prototipi” che abbiano l’ambizione di rendersi utile a un progetto di sviluppo, dalla forte valenza politica, applicabile “mutatis mutandis” anche altrove.
I filoni di cui si compongono queste nuove economie urbane sono almeno tre: quello delle imprese ad alto impatto sociale, prevalentemente impegnate a fornire servizi di nuova generazione nell’ambito del welfare, della cura della persona, della cultura e della creatività cui si possono ascrivere anche le numerose piattaforme di economia collaborativa destinate e scambiare beni e servizi invece che promuoverne il possesso esclusivo; quello delle imprese attive nell’ambito del green, dell’agricoltura periurbana e del crescente settore del food (trasformazione e distribuzione); quello delle nuove manifatture urbane legate all’artigianato tradizionale ad alto valore aggiunto o a quello digitale.
Sui primi due ambiti molto si è sperimentato nel nostro contesto in questi anni, sia dal punto di vista del policy making (incubatori per imprese ad alto impatto sociale o per imprese culturali e creative, sostegno all’economia collaborativa e al crowdfunding, sostegno al coworking e alle imprese periurbane impegnate ad applicare nuove tecnologie al settore primario) sia dal punto di vista dell’iniziativa privata.
Il sostegno alla manifattura urbana come settore potenzialmente in grado di generare anche nuova occupazione va sperimentato su larga scala a partire da oggi.
Come ricorda Paolo Bricco sul Sole 24 Ore del 15/1/2017 citando i dati di Nomisma, dall’inizio della crisi al 2014 il tessuto produttivo nazionale si è ridotto del 17,7 per cento, tre volte più dell’intera area euro. Eppure la produttività media delle imprese manifatturiere è rimasta stabile passando dai 56mila euro per addetto del 2008 ai 58mila euro del 2016 grazie soprattutto alle imprese fra i 10 e i 250 addetti. Tra queste le imprese fra i 20 e i 49 addetti registrano 15 punti di produttività in più rispetto alle rivali tedesche. E sono ancora imprese del manifatturiero quel 20% cui si deve la quasi totalità dell’export e l’80% dell’intero valore aggiunto.
Conviene quindi partire da quel che abbiamo, ovvero un know how manifatturiero che ancora resiste e da un territorio, l’area metropolitana milanese, che più di altre ha mostrato capacità di reazione alla crisi, per costruire un progetto in grado di essere esportato anche altrove.
Il tema del reinsediamento manifatturiero nelle aree urbane è oggetto di riflessione e di costruzione di politiche pubbliche concrete già da tempo in diverse metropoli globali. Tra queste la città di New York ne ha fatto un vero e proprio programma politico-amministrativo. Il rapporto “Make it here. The future of manufatcturing in NYC” del già citato Center for an Urban Future individua nei settori della stampa in 3D, nelle lavorazioni artigiane ad alto valore aggiunto del legno e dei metalli e nel food una traiettoria di sviluppo produttivo ed occupazionale per una città attentissima anche al tema della rigenerazione urbana.
L’obiettivo di rendere Milano un ecosistema abilitante per la nascita, l’insediamento e la crescita di imprese operanti nel campo della manifattura digitale e del nuovo artigianato mi sembra valido in sè e come modello da esportare.
Per renderlo possibile è necessaria un’alleanza tra attori pubblici e privati in una coalizione a guida comunale per la promozione della nuova manifattura e artigianato digitale, integrando nuove iniziative e azioni in corso in un quadro coerente di interventi, guidati anche dai cambiamenti del mercato e dei consumi dove la ricerca di prodotti e servizi su misura supera di gran lunga quella di prodotti standardizzati.
Poiché il tema del reinsediamento produttivo è contiguo a quelli della rigenerazione urbana, il Comune ha intenzione di mettere a disposizione spazi, in prevalenza nelle aree oggetto di intervento nel piano Periferie, insieme a servizi e risorse per favorire la nascita di nuove imprese, la transizione delle imprese esistenti e l’attrazione di nuovi player nell’ecosistema.
Un ulteriore tassello implica la progettazione di adeguati percorsi formativi, facendo leva anche sul patrimonio di scuole professionali esistenti, o sperimentando percorsi nuovi così come è stato già fatto nel progetto sui neet attraverso il coinvolgimento dei fablab quali soggetti erogatori di percorsi di formazione non tradizionali.
È inoltre necessario sostenere azioni di sensibilizzazione e trasformazione culturale degli operatori economici, degli attori sociali e dell’opinione pubblica creando occasioni di incontro e sperimentazione tra imprese, portatori di competenza (fablab, makerspace, imprese innovative, attori della ricerca) e mondo della creatività e del design.
L’interlocuzione con il Governo centrale, fuori e dentro il piano Industry 4.0, è già in corso con l’obiettivo di ottenere sostegno ad una strategia che vuole, prima di tutto, mostrare che l’avanzamento tecnologico può generare lavoro e non solo distruggerlo.
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