Lavoro

Francesco Rotondi: dati e idee a sostegno di un “reddito territoriale”

27 Aprile 2024

Pubblichiamo il contributo di Francesco Rotondi, giurista dal volume a cura di Fondazione AIDP, Le città del lavoro. La qualità dell’occupazione parte dal territorio (FrancoAngeli). Un’analisi delle politiche del lavoro territoriali oggi necessarie per affrontare sia la complessità del mercato sia l’acuirsi di disuguaglianze lungo tutto il territorio.

Confrontarsi con i dati è l’occasione per fare delle scoperte inaspettate e, per certi versi, dischiudono delle verità celate all’osservatore che è “vittima” di propri portati ideologici. In questo caso non è così. La ricerca della Fondazione AIDP, che analizza il tema generale delle “migliori città del lavoro” o in altre parole, le città dove si lavora meglio, restituisce una realtà abbastanza aderente a quella che è l’idea di un paese caratterizzato da profonde differenze territoriali che vanno ben al di là del dato statistico frutto delle “compensazioni” dei diversi indici utilizzati nella ricerca.
La circostanza per cui vi è una differenza fra il nord ed il sud del Paese è un fatto storico che non scopriamo con questa ricerca ma, questa ricerca ha il merito di indurre a delle riflessioni di carattere sistematico sul tema del lavoro e del valore di questo nelle differenti realtà territoriali.
Analizzando i diversi contenuti della ricerca emerge in modo assolutamente evidente che le differenze sono per certi versi “lineari” nel senso che esse sono allineate ai parametri economici che caratterizzano le diverse aree del paese. In altre parole dove i dati del reddito economico dei lavoratori sono più elevati si riscontrano mediamente servizi più elevati e costi della vita corrispondenti. La ricerca muove da alcuni dati che vengono definiti dalla stessa “fondamentali economici”: Reddito da lavoro autonomo; Reddito da lavoro dipendente; Imposte addizionale comunali e regionali; Costo degli affitti. Tali dati sono coerenti con gli altri indici della ricerca. Per dare corso ad un ragionamento che sia aderente ai risultati della ricerca, occorre partire dall’analisi empirica sui cosiddetti “fondamentali economici”, che occorre sin d’ora precisare essere una parte di quelli potenzialmente considerabili. Nell’analizzare i dati emergono alcune indicazioni che evidenziano chiaramente le differenze territoriali del nostro paese.

Il reddito da lavoro dipendente può oscillare fra i quasi 35 mila euro di Milano ed i quasi 15 mila di Andria il che rappresenta un paese in cui il differenziale fra alcune regioni del Nord ed alcune del sud può arrivare a circa il 60% così come il costo per la principale delle esigenze, quella abitativa, passa da 1780 euro al mese a Milano ai 270 euro al mese di Avellino.
Di fronte a questi dati, potenzialmente integrabili con altri parametri che rappresentano il costo della vita, emerge inequivocabilmente che occorre ripensare la struttura del reddito da lavoro, in particolare per il rapporto di lavoro subordinato. Occorre, infatti, che il reddito sia ancorato ai fondamentali economici del luogo dove esso viene prodotto e dove lo stesso viene speso o reinvestito. Questa ricerca probabilmente è lo strumento che, attraverso i numeri, e più di altri rende evidente la “sterilità” e la “miopia” sul dibattito sul salario minimo ma anche quello sulla ripartizione degli investimenti sull’occupazione. Il dibattito, che è stato da ultimo portato alla ribalta dalla proposta di alcune forze di opposizione, ruota attorno ad un assunto ovvero quello per cui vi dovrebbe essere una soglia individuata per legge al di sotto della quale non dovrebbe andare la retribuzione oraria di un lavoratore dipendente. Questa soglia è stata individuata nel valore di 9 euro lordi. Al di là del tema riguardante lo strumento giuridico attraverso cui fissare la soglia del salario minimo, viene da chiedersi cosa rappresentano i 9 euro lordi? Perché non 10 Euro o perché non 12 Euro come in Germania o 11, 52 Euro come in Francia, ovvero ancora perché non 15 Euro come in Spagna?

Ammesso e non concesso che si individuasse la misura del salario minimo in un numero e questo volesse essere legato a concetti, non sempre facilmente misurabili, come la dignità della persona o la povertà, la domanda da porsi potrebbe essere è: “quale soglia soddisfa la dignità della persona e quale no?” Allo stesso modo quale deve essere ritenuta la soglia perché una prestazione può dirsi povera? In altre parole, continuando a ragionare per soglie di sbarramento il rischia di arrivare all’assurdo per cui il lavoratore pagato 8,90 euro l’ora ha una retribuzione povera e non dignitosa mentre quello che riceve 9 euro l’ora vive in una diversa condizione umana. Tralasciando il pur significativo dato del come e perché sia stata individuata questa soglia, per molti versi oscura anche se rapportata ad altri paesi spesso indicati come modello, ciò che non ci si domanda, probabilmente per ragioni legate ad una sorta di equità sociale ideologica più che ad un principio di concretezza, è se discutere di un salario minimo egualitario per tutta la nazione sia effettivamente corretto.
Sotto questo profilo, anche volendo ammettere l’introduzione di una misura che fissi il salario minimo orario a 9 euro lordi all’ora, l’ulteriore domanda da porsi è se questo sia equo in un paese in cui le differenze arrivano a toccare i differenziali di cui abbiamo detto prima? In altre parole, ammesso e non concesso che sia introdotta una soglia numerica occorre evidenziare che questa non ha lo stesso valore a secondo del luogo in cui si vive o rende la prestazione. In questo contesto, forse più che salario potrebbe essere utile mutare il paradigma a favore di un concetto più ampio del salario che è quello del reddito della persona. Il tema è poi quello di individuare la misura perché questo reddito possa dirsi “civile”. In questo quadro lo strumento l’idea di un reddito “civile” passa attraverso un parametro che tenga conto di valori economici a livello locale utili a definire la capacità di produrre ricchezza di un territorio ma anche il costo che vivere in quel territorio comporta.

Solo attraverso un meccanismo verificabile e “aggiornabile” in base ad un parametro oggettivo è possibile definire un parametro di civiltà. Non si tratta di lavoro ricco o lavoro povero o di dignità ma di un lavoro che sia in linea con le aspettative economiche di un individuo per poter vivere e non “sopravvivere” in un determinato luogo. Questo modo di procedere appare, probabilmente, più in linea anche con il dettato costituzionale nella misura in cui l’articolo 36 Cost. non richiama il concetto di povertà ma quello di una retribuzione “sufficiente ad assicurare a se’ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Nell’attesa di uno strumento che intervenga nel disciplinare una così complessa ed articolata materia occorre sfruttare al massimo gli strumenti esistenti per adattare il lavoro nel suo complesso ad una realtà territoriale che si presenta spesso disomogenea. In questo contesto un ruolo decisivo può e deve essere svolto dalla contrattazione nelle sue articolazioni territoriali ed aziendali. Sotto questo profilo è di tutta evidenza che nel rispetto dei margini concessi all’autonomia collettiva è possibile, attraverso la contrattazione di secondo livello adattare il lavoro alle particolari caratteristiche del territorio o dell’azienda.

Nella logica di adattamento della disciplina dei rapporti di lavoro al contesto in cui la prestazione viene resa, non possono essere sottaciute le potenzialità della contrattazione di prossimità che nei limiti delle finalità previste dalla norma:
• stimolare la maggior occupazione e la qualità dei contratti di lavoro;
• adottare forme di partecipazione dei lavoratori;
• far emergere il lavoro irregolare (es. lavoro sommerso);
• incrementare la competitività ed il salario;
• gestire le crisi aziendali e occupazionali;
• promuovere gli investimenti e l’avvio di nuove attività.Possono prevedere delle regolamentazioni che vanno in deroga sia delle previsioni del CCNL che della legge con l’unico limite del rispetto delle norme Costituzionali nonché comunitarie internazionali. Nell’elencazione prevista dalla norma per legittimare gli accordi di prossimità vi sono ampi margini per adattare le regole del lavoro al territorio.

È esemplificativo in questo senso il richiamo alla promozione di nuovi investimenti ed all’avvio di nuove attività che, inevitabilmente, rappresentano un volano di crescita e conseguentemente uno strumento di superamento delle differenze. Volendo trarre alcune brevissime conclusioni è possibile concludere che il tema delle città del lavoro non si esaurisce nell’acritica presa di coscienza di evidenti differenze in ambito territoriale ma nell’analisi di soluzioni che muovono dal valore dei redditi e degli strumenti che siano atti a realizzare eguaglianza sostanziale ma anche delle potenzialità spesso inespresse della contrattazione collettiva come strumento per allineare le realtà imprenditoriali al contesto territoriali in cui esse si collocano.
In ultima analisi, non esiste una “città del lavoro” o una nella quale si lavora meglio ma una tensione all’utilizzo di strumenti che rendono il mondo del lavoro più aderente alle caratteristiche di quel territorio. Il portato di questo approccio è evidentemente quello per cui realtà sociale e realtà imprenditoriale concorrono ad obiettivi convergenti ma diversificati in funzione del territorio.

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