Lavoro

Tra “winners” renziani e “losers” novecenteschi ci rimette la politica

29 Ottobre 2014

E’ stato un fine settimana complicato, quello che ci siamo lasciati alle spalle. Roma e Firenze, viste da Torino, sono state la rappresentazione plastica di due mondi apparentemente distanti e inconciliabili. Soltanto apparentemente, perchè non si può parlare dell’una senza rimandare all’altra e viceversa. Nella rappresentazione fiorentina a Roma ha sfilato lo stantio, il vecchio, il desueto serrare le fila di una sinistra identitaria e perdente. Il gettone contro l’IPhone, il Gelosino contro l’IPod, il megafono contro lo streaming. A Roma, invece, si è guardato a Firenze come ad un’accozzaglia di slogan e nuovismo un po’ bullo e inconsistente, reazionario per protagonisti e parole d’ordine. Vincente, certo, ma sulla pelle di chi, a sinistra, è sempre stato per provenienza, condizione sociale o scelta. A Roma c’erano i losers, a Firenze i winners. Adesso rischiamo di cristallizzarci intorno a questa dicotomia: i perdenti e i vincitori. Banalizzazione di una transizione tutta italiana verso la contemporaneità che non riesce ad andare oltre i 140 caratteri di un tweet e la tifoseria urlante.

Io non sono andata a Firenze, malgrado ne fossi stata una dei protagonisti nel 2010.   Molti miei amici, persone che stimo, compagni di strada c’erano, invece. Ho spiegato – in 10 punti – il motivo della mia assenza sperando che qualcuno entrasse nel merito e mi convincesse che stavo sbagliando. Per il momento non ho ricevuto risposte soddisfacenti. Accetto anche messaggi whatsapp e tweet,  sono una loser2.0, purchè non mi si ripeta  il mantra del 40,8% e che gli imprenditori e i lavoratori sono tutti sulla stessa barca. Lo so da me senza bisogno di retorica marinettiana che mi spieghi quanto è bella la velocità. Però in un paese dove centinaia di donne rumene raccolgono frutta, in nero, nel Ragusano sfruttate anche sessualmente, i padroni esistono ancora. E non sono tutti innovatori che lanciano start up e che compartecipano – con i lavoratori – al rischio di impresa. Qui ci sono anche i motivi per cui nel 2010 sono scesa a Santa Maria Novella ed ho sfidato l’establishment che trovava riprovevole quell’iniziativa. Uno dei problemi che sollevo, oggi, è proprio la presenza, nel 2014, di quell’establishment o delle sue seconde file, plaudente a celebrare l’incoronazione del Winner.

Non sono andata nemmeno a Roma, però. Malgrado lì ci fosse una parte consistente della mia gente, della mia casa, della mia storia. In quella piazza ci sono stata nel 2003: quando tre milioni di persone e Sergio Cofferati segretario CGIL contrastarono le riforme del lavoro del Governo Berlusconi. Ci andai malgrado una vita da lavoratore atipico, partita Iva individuale, flessibile fino al paradosso. Non ha mai riguardato me, la difesa dell’art.18. Io rappresentavo quelli che – per una parte di sindacato allora – erano i 4 milioni di imprenditori italiani. Vale a dire le partite Iva precarie e senza tutele che di imprenditivo hanno soltanto la speranza di non ammalarsi mai. Però c’ero, perché ho sempre pensato che i lavoratori senza sindacato sono più soli e non riescono a farsi soggetto sociale. Ma molto avrei da dire sulla necessità di rigenerare anche quella storia, quella classe dirigente e gli orizzonti di un sindacato ai tempi della molecolarizzazione dei lavori e dell’economia globale. A Firenze e a Roma – se solo si avesse voglia di andare oltre – c’erano tutte le contraddizioni ma anche le potenzialità di un cambiamento possibile. Se la posta in gioco fosse davvero il cambiamento e non la resa dei conti tra storie dell’altro secolo – peraltro rappresentate in modo un po’ grottesco. I segnali che arrivano, invece, sono altri. Da Firenze, soprattutto, dove la responsabilità dell’ascolto e della condivisione dovrebbero rappresentare la cifra e lo stile di un nuovo corso. I toni sono stati sprezzanti, divisivi: noi siamo i winners, voi siete i losers. Qui vi racconto perché non sono andata alla Leopolda2014. L’ho scritto prima e alla luce di questo fine settimana riscriverei tutto, sperando che qualcuno mi convinca che sto sbagliando.

I 10 MOTIVI PER CUI NON VADO ALLA  #Leopolda2014 ottobre 2014…4 anni dopo 

  1. Perché in questi 4 anni sono successe molte cose. Alcune positive, altre molto meno. Trovarmi in maggioranza con Alfano e Giovanardi, per esempio, non l’avevo contemplato neanche nei miei incubi peggiori. Neppure il passare dalla Grosse Koalition del 2013 alle larghe intese, così larghe da diventare quasi permanenti, almeno fino al 2018
  2. Perché l’estetica generazionale ha vinto, ma la rottamazione dei metodi, del cinismo, della cooptazione per filiere di fedeltà è rinviata a data da destinarsi. Le prime, seconde, terze, quarte ore affollano il palco con l’aria gradassa di chi ha vinto per merito di altri. Perpetuando i metodi e le filiere di fedeltà. Per indole, quando il clima è “non faremo prigionieri”, a me viene       voglia di stare dalla parte dei prigionieri. Anche perché i vincitori talvolta mi lasciano basita.
  3. Perché c’è una questione grande come una casa: il rapporto del Leader con la massa (popolo, ggente, elettori) , non mediato dalla politica. E’ un modello vincente che interpreta i tempi. Ma non mi piace, per niente. Lascia indietro lo spazio della complessità – e scusatemi se ci sono affezionata, alla complessità. La rappresentazione istantanea del cambiamento è efficace dal punto di vista comunicativo – non c’è dubbio – ma se poi le cose non cambiano davvero o cambiano in peggio non è che abbiamo fatto un gran lavoro. Viviamo in un eterno presente, con la parola #futuro appiccicata come una TAG ossessiva e costante.
  4. Perché le rivoluzioni portano sempre con se’ le controriforme reazionarie. Ecco, a me pare che il mantra rivoluzionario contenga in se’ un bel po’ di contro-reazione prima ancora di aver davvero ribaltato i tavoli. Parlo del Decreto Sblocca-Italia – semplificazioni nel paese dei predoni di territorio, trivelle che cercano fossile quando il mondo va da un’altra parte – oppure della questione dei diritti – che a forza di rinviarli diventano rovesci. Per fare due, miseri esempi.
  5. Perché alla Leopolda2010 ci sono andata (qui sotto i 10 motivi per cui ci andai) e ricordo molto bene quanto e come fummo osteggiati da chi ora ha prenotato un posto in prima fila. C’era energia intelligente, Matteo: plurale e pronta a darsi fuoco per un nuovo progetto politico, non per un capo che incarnasse tutte le virtù. Forse eravamo tutti li ognuno con motivazioni diverse. Che tu fossi un Lupo Alfa – con tutti i meriti e i rischi che questo comporta – mi è stato chiaro al primo minuto del venerdì sera di 4 anni fa. Quello che non avevo considerato era la voglia di branco e il trasformismo dei vecchi lupi alfa che hanno contribuito a distruggere il branco.
  6. Perché gli 80 euro sono sempre gli stessi – un po’ come i carrarmati. Annunciati con la graziosa concessione del leader. Recuperati dalla macelleria che si sta facendo con gli enti erogatori di servizi – gli Enti Locali in primis. Quelli che in questi anni hanno affrontato la crisi a mani nude, tentando risposte di welfare universale nella sorda assenza del legislatore nazionale. La differenza tra un bonus ed un servizio – tra concessione e diritto – è roba da loser, lo capisco. E’ il perno su cui si fonda lo Stato moderno e gli ultimi cento anni di battaglie di civiltà per un welfare dei diritti. Ma si sa che noi loser siamo affezionati alle parole
  7. Perché in questo paese c’è poco da difendere e bisognerebbe ripartire da zero. Con l’intelligenza dei progetti condivisi. Ci sono le parole e ci sono i fatti, e con loro la credibilità di una classe dirigente da ricostruire. Scuola pubblica, rapporti sindacali, mondo del lavoro, sanità, welfare, sviluppo e territorio, ambiente, burocrazia, Istituzioni: ci sono i titoli delle cose da cambiare, ne do atto. Mi piacerebbe leggere, discutere, capire oltre ai titoli quale è il disegno. Perché deve esserci un disegno e non mi basta un indice ragionato. Voglio tutto il testo, anche con le note a piè di pagina.
  8. Perché condivido che essere a sinistra nel terzo millennio significa credere nelle opportunità. Figuriamoci se posso essere contro. Sono anche a favore della pace universale, della lotta alla fame nel mondo ed all’eliminazione delle disuguaglianze. So what? E quindi? Come, con quali strumenti, con quale pensiero, con quale idea di società? Con quali compagni di strada, soprattutto? Non è indifferente ne’ il come, ne’ il cosa e soprattutto il chi.
  9. Perché sono di Livorno ed i motivi per cui in quella città abbiamo preso una sonora bastonata sono stati frettolosamente rimossi e quasi ci aspettiamo la rivincita di fronte all’inadeguatezza di quelli che ci sono ora. Ce ne saranno altre, di Livorno, se non investiamo in un’ecologia della politica che cambi il modo con cui gestiamo e governiamo i territori e le Istituzioni.
  10. Perché i migliori che erano alla Leopolda2010, quelli competenti ed innovativi, quelli che portavano contenuti e complessità analitica oggi non sono protagonisti. Nel migliore dei casi sono consiglieri del principe, in altri sono semplicemente scomparsi e tornati a vita privata. E’ una sconfitta, per tutti. Perché il pensiero e lo studio servono, anche quando si fanno e si annunciano le rivoluzioni. La Rivoluzione Francese, senza l’illuminismo, sarebbe stato esclusivamente un vuoto e inutile rotolare di teste scomode. Diderot e Voltaire erano sicuramente noiosi e pedanti e forse poco fedeli. Però, almeno all’inizio, hanno preparato il terreno. Ottobre 2010… quattro anni prima

I 10 MOTIVI PER CUI VADO ALLA #LEOPOLDA2010

  1. Perché appartengo ad una generazione di arrivati tardi: nel ’68 avevo 4 anni. Nel ’77 ne avevo 13. Quando c’era la meglio gioventù io appartenevo alla meglio infanzia. Sono quasi 40 anni che ne sento parlare. Ho ammirato i fratelli maggiori che  sembravano straordinariamente capaci di capire e interpretare il mondo. Nel frattempo sono cresciuta, ho studiato,  lavorato, cambiato città, amori, lavori. Ho fatto i conti con le rate del mutuo, con i contributi INPS, con il futuro dietro le spalle, con la necessità di capire cosa stava succedendo. Nel frattempo è caduto  il muro, si è allargata l’Europa e si è anche un po’ frantumata, si è spostato il baricentro mondiale, si sono dissolti Stati, ci sono state guerre a 500 km di distanza da casa mia, è nato Internet, i social net, la new economy è esplosa,  la modernità si è complicata. Nel frattempo, da 16 anni, la democrazia italiana è immobile, involuta, bloccata, arretrata. Nel frattempo ho frequentato la cosa 1, la cosa 2, il partito liquido, quello solido, quello social-democratico, quello democratico, quello aperto, quello chiuso. Quello della pluralità del ‘900, in attesa delle pluralità del terzo millennio. Nel frattempo ho una figlia che è giovane davvero, e i pensieri sul futuro si fanno cupi, sincopati e difficili. E comincio a pensare che i miei fratelli maggiori non è che le abbiano azzeccate proprio tutte: l’infallibilità di una generazione non è un dogma. Questo vale solo per il Papa e per chi ci crede.
  2. Perché i miei fratelli maggiori sono 40 anni che interpretano il mondo. Appartengono ad una generazione che  ha gridato “senza  padri ne’ maestri”. E che ha trovato padri e maestri da ribaltare e contestare.  Io, invece, appartengo ad una generazione di autodidatti, che non ha  trovato ne’ padri ne’ maestri disponibili a generare conflitto. Semplicemente non c’erano, erano impegnati in altro,  erano sempre – e da 40 anni – irrimediabilmente giovani.
  3. Perché non condivido il fratricidio che contraddistingue questa nostra stagione e, come Umberto Saba, penso che sia questa la maledizione italica. Ma non condivido nemmeno il fatto che sia il Conte Ugolino a segnare la strada. Non mi piace neppure il parricidio, ma non credo si stia discutendo di questo.
  4. Perché i miei fratelli maggiori hanno tantissimi meriti, ma uno fanno proprio fatica ad averlo: la generosità che poi è sopravvivenza della specie. Quella che serve per sostenere la crescita del branco, quel mettersi a disposizione per evitare l’estinzione, per dare consigli, per indicare la strada senza pretendere, sempre, di essere gli unici a doverla percorrere. Quella che hanno avuto i loro padri, come ci racconta Reichlin nel “Midollo del leone”. Quella generosità che non ha paura di lasciare eredità, perché è forte della strada compiuta.
  5. Perché non credo proprio che serva contare le candeline sulla torta per decidere chi ha più fiato. Serve cucinarla, ‘sta torta: avere gli ingredienti, dosare e pesare, sapere cosa metterci dentro perché non si afflosci o non sia immangiabile. Sono disponibile a portare i sacchi di farina, lo zucchero, il cacao. A usare gli ingredienti migliori anche se chi li suggerisce non è mio amico o arriva da un’altra storia. Il lievito lo troveremo, insieme. Il forno è già acceso. Se non c’è la torta, nessuno spengerà le candeline.
  6. Perché se c’è qualcosa da rottamare è il metodo, il modo, il cinismo, la cooptazione, la fedeltà premiante, la ricerca dei denominatori comuni con i compromessi al ribasso invece di cercare il  multiplo, quello che potrebbe  sprigionare energie e moltiplicare gli effetti. La questione è tutta politica, non generazionale. Sbaglia chi va a Firenze per mostrare i muscoli o per prenotare un posto in prima fila. Sbaglia chi mette le asticelle delle età e conta quanti gggiovani  (con tante g) sono nelle istituzioni. La gioventù non è una razza: passa, se non si muore giovani.
  7. Perché mi piace pensare che l’unico contratto a tempo determinato sia quello con la politica. O meglio: quello di chi viene pagato dalla politica. La militanza è un contratto che dura per sempre: lo sguardo politico sul mondo può rendere degna una vita. Ma il lavoro nelle istituzioni non coincide con la militanza,  implica responsabilità e fatica: è un lavoro usurante – se fatto sul serio – e dopo un po’ è giusto passare ad altro per continuare ad avere qualcosa da dire. Io sono temporaneamente impiegata dalla politica: lo faccio al mio meglio, mi usuro, come tanti altri. E so che non si può fare bene per tanto tempo. E’ un po’ come fare per tutta la vita il chirurgo d’emergenza: dopo tanti anni ti abitui, hai mestiere ma non è detto che tu sia  sempre totalmente coinvolto. E non c’è nulla di male a mettere a disposizione l’esperienza e il mestiere ai giovani chirurghi, che in cambio ci mettono passione e paura di sbagliare.
  8. Perché Firenze è una bella metafora: tanti secoli fa c’è stato il tumulto dei Ciompi, che ha allargato la base dei diritti e della rappresentanza nelle corporazioni e nelle arti.  Firenze non deve fare paura, se si capisce che è un po’ il raduno dei Ciompi. E se a nessuno viene in mente di soffocare il popolo minuto o di prenderne la bandiera e usarla per entrare nella Gilda più importante.
  9. Perché Firenze è una bella metafora anche vista da Torino, nel 150esimo dell’Unità. Quando è diventata capitale da queste parti non è stata presa bene: la sindrome da vedovanza della mia città è cominciata da lì. Però poi Torino si è inventata un’altra storia, e ha costruito l’avventura della storia industriale italiana del ‘900. Mica poco, quando ti portano via i principi, i nobili, la burocrazia e i ministeri. Ci si inventa un’altra storia: e chi lo fa di solito non c’era prima. Non sono stati i Savoia a farlo. Sono stati altri. Adesso può cominciare un’altra storia: chi ha saputo costruire il Regno non è detto che sappia costruire automobili. Allora non c’è stato regicidio: la Repubblica è arrivata dopo, e adesso dobbiamo tenercela stretta
  10. Perchè se dopo Firenze ci sarà Urbino, Gallarate, Palermo avremmo contribuito ad allargare la rete, ci saremmo tutti rimboccati le maniche e avremmo ricominciato a sognare. Perchè non si sogna da soli: si sogna insieme o ci sono gli incubi.
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