Lavoro
Emanuele Coppola ci racconta la pigrizia e la fatica. Un elogio di Oblomov
In un tempo in cui l’essere si confonde troppo facilmente con il fare, in cui spesso si è, ma non si fa, non è cattiva cosa tornare a Oblomov e alla sua umanità statica che si sottrae al lavoro facendo del suo corpo un corpo meditativo. Essere dunque presenti a se stessi in un tempo in cui l’assenza certifica più la moltitudine che la solitudine. Ci sorge in questa riflessione il bel libro di Emanuele Coppola, Infiniti volti. Approssimarsi a Emmanuel Levinas (Mimesis) di cui pubblichiamo un estratto, per prendersi una pausa dal mondo in giorni di “meditato” riposo. Ringraziamo l’editore per la disponibilità.
Non c’è vita che non sia stata visitata da pigrizia e fatica, due esperienze solidali per legami fisiologici e nessi logici, che Levinas affronta nel primo scritto post-bellico del 1947, Dall’esistenza all’esistente, ma che per le loro implicazioni anti-ontologiche vogliamo affiancare agli stati considerati in Dell’evasione: bisogno, piacere, vergogna, nausea.
La pigrizia ha il suo eroe eponimo in Oblomov, il protagonista sdraiato del romanzo di Ivan Gončarov. Per un momento – il momento della durata di questo vissuto de-og-gettivante – il filosofo sorprende l’operazione di assunzione dell’esistenza da parte del soggetto. Per un momento, l’aderenza all’esistenza si disfa, e l’essere, che sembrava il grembo in cui ogni risposta è attesa dalla rispettiva domanda, in un tessuto inconsutile di intelligibilità, si trasforma nell’oscurità senza domanda né risposta, perché a-linguistica nella sua essenza: l’estraneità assoluta, che mi ghermisce senza scampo. Ecco il mal d’essere, il “c’è” totalizzante senza uscita.
Nonostante le apparenze, Oblomov assume una dimensione titanica, proprio in quanto la sua non è svogliatezza psicologica; così la fraintende l’amico Stolz, che conia l’etichetta “oblomovismo” per nulla di più che il vivere in pantofole, persuaso che terapie d’urto a base di ginnastica e salotti siano rimedi vincenti. Oblomov sente fisicamente l’urgere della vita da tutti i lati. Il disordine crescente nella camera, la polvere a cui è inutile opporsi, gli obblighi verso i creditori, le scartoffie amministrative che si accumulano sul tavolo – tutto l’ingombro della materia e l’entropia che s’incrementa a vista d’occhio nell’appartamento. La pigrizia è la scoperta del cominciamento che è in ogni istante, vissuto in quanto tale. Il cominciamento si compie, si conclude in sé stesso, non porta oltre. Il pigro non rompe gli ormeggi, si arresta prima, in una inibizione che impedisce l’esecuzione dei compiti. Oblomov è un Sisifo da fermo. […]
Il pigro avverte tutto il peso di una sovrabbondanza che, anziché allettare e appagare, opprime. Il pigro rigetta l’essere e il suo persistente riproporsi in ogni atto abortito; ogni momento del tempo è un incipit, che arride facilmente a chi voglia ricominciare la vita su nuove basi – se domani è un altro giorno, adesso è un altro istante –, ma che per Oblomov perde il sapore della promessa di futuro, spegnendosi sul nascere. Il pigro è un sabotatore fallimentare dell’esistenza, perché il tentativo di negazione ripiomba sempre nel grado zero dell’inerzia ontologica. La sua diserzione è performativamente autocontraddittoria.
Una dinamica simile caratterizza la controparte attivistica della pigrizia, che è la fatica.
Lo sforzo del nostro lavoro si dibatte in un circolo: dalla fatica esso prende le mosse in uno slancio, nella fatica ricade. Per quanto motivanti siano le finalità di un progetto, non c’è mai gioia nel compiersi dello sforzo in quanto tale; anzi, in esso, e nell’ombra della fatica che l’accompagna, si produce lo stesso sdoppiamento fra l’esistenza e il suo portatore, che abbiamo visto all’opera nella pigrizia. Uno scarto che è, anche qui, prima di tutto temporale, poiché lo sforzo si compie nell’istante.
Che sia un contadino curvo sul solco o un colletto bianco in ufficio, identica sarebbe per Levinas la solitudine dell’individuo disarticolato in sé stesso, identica l’esitazione davanti alla falla – un vero e proprio lag o décalage nel tempo vissuto –, prodottasi fra chi lavora e la realtà su cui lavora, non più innocente e data per scontata, ma assunta come peso. E tuttavia, il contadino non abbandona la vanga, lo sterratore non smette di scavar buche, il boscaiolo non fa che impugnare l’ascia; non perché duro è il mestiere di vivere, che non si potrebbe abbandonare se non con un gesto (Cesare Pavese, 18 agosto 1950), ma perché il compito di esistere è talmente irreparabile, che ogni atto di insubordinazione è a priori iscritto in esso. […]
Il caso di Oblomov, pur con tutto il carico di disillusioni che lo induce a confessarsi stanco di vivere, ha una complessità diversa da quella dei suicidi delle tragedie letterarie o dei resoconti di cronaca. […] Supposto che convenga far la tara a pregiudizi e pose da conservatore, che Gončarov ascrive a un rappresentante tipico della nobiltà russa, Oblomov rivela una natura positiva e buona, dotata di sentimenti morali intensi, capace di avvertire con trasporto le sofferenze altrui; Diogene affabile, dal non-luogo del divano, chiede dove sia l’uomo, non riconoscendolo nelle caricature dei ruoli e delle funzioni. E lamenta la mancanza della vera vita: “Quando dunque vivere?”.
“La vera vita è assente”, sembra fargli eco l’apertura della prima sezione di Totalità e infinito. La frase, proveniente da Rimbaud, consente a Levinas di osservare che la metafisica classica sorge e si mantiene nell’alibi di una vita che sarebbe altrove, altrimenti, altra. Ma qui, nel punto in cui il discorso vira verso altezze infide, sorprende ancora Oblomov con una domanda che pone a sé stesso, in un ragionamento sospeso e anomalo nel romanzo:
L’altro, l’altro… Ma che cosa è dunque l’“altro”? […]. L’“altro” non indossa mai la veste da camera, […] non dorme quasi mai… l’“altro” si gode la vita, va dappertutto, vede tutto, si interessa di tutto. E io! Io… non sono l’“altro”.
Quegli altri, che aveva poco prima respinto, plebaglia indegna di un accostamento al giovin signore, ora diventano più estranei, diversi, minacciosi, separati da una distanza incolmabile. Il vulcanico lavorìo interiore di Oblomov, straziato dall’anelito a cominciare finalmente la vera vita, ha intuito la potenza singolare di un’alterità umana, che – come tenteremo di mostrare – è incompatibile tanto con la pigrizia quanto con l’ontologia.
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