Ombre

Lavoro

DEI e caregiver con doppio lavoro

In Italia ci sono 2,8 milioni di caregiver, persone che in ombra assistono e curano a lungo termine familiari con malattia, disabilità o non autosufficienti: 1,6 milioni lavorano e 1 milione no. Le prime fanno un doppio lavoro, le seconde hanno rinunciato a cercarlo. Che fare?

2 Gennaio 2025

Lo scorso 18 ottobre 2024, il CNEL ha pubblicato il rapporto Il valore sociale del caregiver. Percorso di quantificazione e individuazione del profilo emergente delle persone che si prendono cura dei familiari. Una prima ricognizione.

Il documento ci dice che in Italia ci sono 7 milioni di connazionali di età compresa tra 15 e 64 anni che forniscono cure o assistenza almeno una volta a settimana a persone appartenenti al proprio nucleo familiare.

Preso così, il dato ci dice poco o nulla

Qui dentro, infatti, c’è l’obbligo di assistenza morale e materiale reciproca tra coniugi (art. 143 del Codice Civile) ci sono i doveri dei genitori nei confronti di figli e figlie (art. 147) e i doveri di figli e figlie nei confronti dei genitori (art. 433 e ss., nei quali a partire dall’obbligo degli alimenti si arriva alla modalità diretta di soddisfare tale obbligo anche ospitando il genitore anziano il genitore anziano nella propria abitazione e provvedendo ai suoi bisogni).

In realtà, analizzando meglio il dato, emerge un quadro variegato:

– per intensità dell’impegno: c’è chi lo fa per due manciate di ore a settimana, chi per 10-20 ore a settimana e chi per almeno 20 ore a settimana. Per questi ultimi, con una certa frequenza l’impegno di caregiver porta con sé la rinuncia a trovare un impiego.

– per genere: le donne sono più coinvolte degli uomini nelle attività di caregiving familiare (58% a fronte del 42%), verosimilmente per effetto dell’ancora non estinta segregazione di genere nelle attività di assistenza e cura in famiglia.

– per fase del ciclo di vita professionale: il 41,1% è nel periodo chiave ai fini della carriera (35-54 anni); il 27% è nella delicatissima fase 55-64 anni, non più così giovani da avere tutta la vita davanti, con la concorrenza sul mercato del lavoro di Millennials e di Gen-Z e non ancora così maturi per andare serenamente in pensione; il 21,4% è già nella terza età.

Questi numeri ci dicono che nel nostro Paese ci sono quasi cinque milioni di persone chiamate a ruoli di caregiving familiare durante i migliori anni da dedicare alla propria realizzazione professionale (a meno che non abbiano rinunciato al lavoro retribuito per svolgere in ombra quello di caregiver).

In periodo di declino demografico, che assottiglia le classi anagrafiche più giovani e che impone di posticipare l’inizio dei pensionamenti, alleviare o supportare la fascia 35-64 anni nelle attività di assistenza e cura familiare è un tema di crescente importanza, anche in termini di valorizzazione del (loro) capitale umano e di competitività delle imprese.

A tal fine, il quadro normativo è già abbastanza articolato e il citato rapporto ne dà ampia evidenza, anche in ottica comparata con altri Paesi europei.

Non sfugge, però, che il tema riguarda anche le imprese che impiegano persone 35-64 che devono conciliare il lavoro con un impegno ombra tra le mura domestiche.

Perché il tema è rilevante per le imprese e le Parti Sociali

Il rapporto, a partire dalle ultime rilevazioni Istat disponibili relative all’indagine su «Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari in Italia e nell’Unione Europea» del 2019 e ai dati contenuti nel modulo «Conciliazione tra lavoro e famiglia» della rilevazione sulle forze di lavoro 2018, fornisce qualche informazione in più su questa moltitudine operosa, silenziosa e ancora poco conosciuta di 7 milioni di connazionali a vario titolo impegnati in attività di cura e assistenza in famiglia dandoci la loro condizione occupazionale:

nel complesso, 2,8 milioni si prendono cura di familiari di 15 anni e più malati, disabili o anziani non autosufficienti e quindi è un caregiving continuativo e che in molti casi nel corso del tempo aumenta in termini di impegno;

una parte, pari a 1 milione, risulta inattiva, cioè non ha un lavoro e nemmeno ne sta cercando uno. A pagare di più, ancora una volta, sono le donne: tra quelle in età compresa fra i 45 e i 64 anni con responsabilità di cura nei confronti di familiari con almeno 15 anni, malati, disabili o anziani il tasso di occupazione risulta significativamente più basso di circa quattro punti percentuali;

un’altra parte, pari a 1,6 milioni, ha una occupazione stabile e, quindi, ad essa aggiunge l’impegno di caregiver familiare: è un esercito di doppiolavoristə, con un lavoro retribuito e riconosciuto e l’altro che sta in ombra.

E la DEI? Cos’è e cosa c’entra con il caregiving?

DEI sta Diversity, Equity e Inclusion e rappresenta un approccio nelle pratiche di gestione delle risorse umane che promuove un ambiente lavorativo equo, rispettoso e inclusivo. All’interno di questo contesto, trova spazio il tema del caregiving.

Sta crescendo il numero di grandi imprese che nella loro HR Value Proposition prevedono misure di flessibilità e supporto economico, consulenza personalizzata o supporto psicologico per dipendenti caregiver.

Le Parti Sociali si stanno muovendo attraverso la contrattazione collettiva, inclusa quella aziendale e territoriale.

C’è la via organizzativa, che passa per soluzioni «salva tempo o dai tempo», con forme di banca-ore solidale alimentata da maestranze e imprese per l’assistenza estesa anche ai genitori non autosufficienti, piuttosto che per forme ad hoc di flessibilità di orario o di accesso al lavoro agile oltre quanto definito dai contratti e dalle normative vigenti.

C’è la via economica, che ha come obiettivo creare le condizioni per disporre di risorse economiche per eventuali esigenze di non autosufficienza, sgravando così la rete familiare.

C’è la via del welfare, che si esprime con servizi diretti a supporto tanto dell’attività di assistenza quanto del benessere di chi, dopo il lavoro in azienda, si dedica alla cura in famiglia. Il welfare aziendale, a ben vedere, è un’area che ben si presta ad assorbire le specifiche esigenze della moltitudine doppiolavorista che merita soluzioni ad hoc.

Non ci sono solo le code (anagrafiche)

Durante i primi cinque lustri del XXI secolo si è parlato con crescente intensità di capitale umano, della sua valorizzazione (lavoro dignitoso, lavoro ricco e povero, gender pay gap e altro) e della sua circolazione (fuga e rientro dei cervelli, flussi migratori e altro).

Questo dibattito è stato sostenuto anche dalle proiezioni demografiche, che portano inevitabilmente l’attenzione sulle code:

– quella delle generazioni più giovani che si assottigliano e fanno prevedere scenari apocalittici per il futuro delle filiere scolastico-formative prima e delle imprese poi;

– quella delle generazioni della terza e quarta età che si ingrossano e fanno prevedere scenari altrettanto apocalittici per la tenuta del sistema pensionistico e per i sistemi sanitari.

Il rapporto del CNEL e la riflessione nella prospettiva manageriale che avete appena letto ci ricordano che esiste un segmento di popolazione che, nell’ombra, si prende cura delle due code e che reclama politiche coraggiose.

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