Lavoro
Confidustria e Corriere sognano di abolire il contratto a tempo indeterminato
«Ed ecco perché in questa fabbrica meridionale rispettando, nei limiti delle nostre forze, la natura e la bellezza, abbiamo voluto rispettare l’uomo che doveva, entrando qui, trovare per lunghi anni tra queste pareti e queste finestre, tra questi scorci visivi, un qualcosa che avrebbe pesato, pur senza avvertirlo, sul suo animo. Perché lavorando ogni giorno tra le pareti della fabbrica e le macchine e i banchi e gli altri uomini per produrre qualcosa che vediamo correre nelle vie del mondo e ritornare a noi in salari che sono poi pane, vino e casa, partecipiamo ogni giorno alla vita pulsante della fabbrica, alle sue cose più piccole e alle sue cose più grandi, finiamo per amarla, per affezionarci e allora essa diventa veramente nostra, il lavoro diventa a poco a poco parte della nostra anima, diventa quindi una immensa forza spirituale».
Adriano Olivetti
(Discorso ai lavoratori di Pozzuoli in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento Olivetti in provincia di Napoli, il 23 aprile 1955.)
Vorrei raccontarvi come molti di noi sono stati assunti nel giornali. Si entrava da “abusivi”, cioè senza l’autorizzazione aziendale a stazionare nei locali del giornali, ma sotto l’ala protettiva di un caporedattore che credeva nelle tue possibilità e dunque ti copriva. Credere nelle possibilità di qualcuno “è” esattamente essere aziendalista, ma l’azienda spesso è così fessa che blocca quelli bravi e subisce i raccomandati. Entrati in redazione senza autorizzazione, si faceva quotidianamente la vita di redazione senza peraltro essere contemplati in alcun organigramma. Non esistevano orari, turni, ferie, riposi. Tu eri un fantasma attivo. Potevi scrivere e firmare con il tuo nome, ma certi servizi no. Se andavi fuori per il giornale, nessun rimborso. Solo qualche liretta a pezzo. Scrivevi però sui computer del giornale, mettevi le tue chiappe sulle sedie del giornale, ogni volta una diversa perché prendevi la scrivania di chi quel giorno era in riposo. Tornavi a casa ogni notte distrutto ma speranzoso e felice. Felice perché sapevi che c’era un tempo oltre il quale qualcuno – tu stesso, il sindacato di categoria, l’Ordine professionale – avrebbe posto la questione delle questioni all’azienda: cara azienda, questo signore frequenta stabilmente i locali del giornale, soggiorna al suo interno, usa regolarmente le macchine del giornale, viene inviato all’esterno per i servizi giornalisti, viene retribuito a pezzo, ecco, ora questo signore lo devi assumere, ne ha maturato i diritti. Se ciò non accade, ci rivolgeremo al pretore del lavoro. Questa offensiva, in genere, accadeva dopo un anno di “abusivato”. Se l’azienda rispondeva picche, il pretore, se vi erano tutte le condizioni (spesso i colleghi venivano a testimoniare in tribunale), calava l’asso. E tu eri assunto.
Molti giornalisti di quel tempo, che non è un secolo fa, adesso sono i nostri editorialisti più famosi. Chissà, magari qualcuno è stato assunto così. Altri hanno dovuto “solo” minacciarla, la causa. Per dire che come categoria non sentivamo ragioni, quando c’era da rivendicare un diritto. Un principio. Pensavamo, allora, che per un principio si dovesse muovere una battaglia. Fino alle estreme conseguenze, perderla, ma spesso anche vincerla. Nel corso di questi anni, la nostra categoria ha depauperato quasi tutto ciò che aveva conquistato in quelle battaglie. E la colpa è solo nostra. Il vero motivo? Aver barattato i princìpi con i princìpi di realtà.
È quello che sta accadendo oggi nel mondo del lavoro. Va subito detto che nessuno può avere la pretesa di trapiantare epoche diverse nella contemporaneità, una visione da anime belle che lasciamo volentieri ai sognatori. Dunque, sempre ben chiaro il principio di realtà. Ma i princìpi, almeno quelli che riteniamo tali, beh, trapassano le epoche ed entrano a piedi giunti nelle delicatissime questioni contrattuali tra aziende e lavoratori. Molti dei nostri migliori giornalisti si sono dimenticati di quanto ci siamo incazzati, quanto siamo stati inesorabili nel rivendicare i nostri diritti di categoria. Uno di questi è una testa importante del Corriere, Dario Di Vico, a cui il giornale ha affidato la valutazione del decreto Dignità sull’onda di quegli 8.000 posti di lavoro che sparirebbero ogni anno per via delle pastoie e delle limitazioni a cui le aziende sarebbero sottoposte. «Rendendo impossibile protrarre oltre i 24 mesi i contratti a termine – scrive Di Vico – ben 80mila rapporti di lavoro non avranno più campo ed è facile prevedere che almeno il 10% di essi – stima assai prudenziale! – non sarà rinnovato. È il frutto dell’ideologia dell’economia punitiva, per combattere le diseguaglianze la mossa più sicura è ammazzare i disuguali».
Riportiamo indietro la macchina del tempo, solo per qualche attimo. Il Corriere della Sera praticamente ci certifica che è inaccettabile chiedere conto all’imprenditore del destino del suo lavoratore dopo 24 mesi di lavoro (prima erano 36). E lo fa scrivere al suo uomo di punta, un giornalista che a suo tempo si sarebbe battuto per i diritti di un collega non già dopo 24 mesi, ma appena 12, un anno di lavoro! Insomma, dopo un anno, Di Vico, che ragazzo fu pure sindacalista, si sarebbe presentato al comitato di redazione chiedendo i giusti diritti per quel giornalista. Cosa dobbiamo pensare allora, che nel tempo sono cambiati i princìpi?
Decliniamo subito il nostro favore politico, in modo che agli sprovveduti manchi subito l’acqua: nessuno. Ma qui non possiamo non osservare come da parte di vari soggetti in campo, tutti riconducibili a uno schema preciso, si esprima una visione vagamente padronale dello scontro in atto. C’è un paradosso grande come una casa e, giusto per sorriderne un po’, assomiglia tanto alla vacca nel corridoio di bersaniana memoria: tutti dicono e scrivono che idealmente le idee Cinquestelle sul lavoro avrebbero un senso ma che non si può fare. Nessuno spiega perché non si può fare. Anzi, l’unica spiegazione è: perché mettiamo troppi bastoni tra le ruote degli imprenditori. I quali, sottinteso, alla fine dei 24 mesi si sono così ampiamente scassati i cabbasisi che ti mandano a spigolare. Quindi la morale è che dei due forni, uno è intoccabile: le aziende. Le quali continuano ad avere il coltello dalla parte del manico. Nessuno si perita di capire, di indagare, se e quali esigenze hanno imprenditori e lavoratori insieme (insieme) in un’ottica di complessiva crescita. No, Confindustria e il Corriere, via Di Vico, certificano che uno è più forte dell’altro e il più debole va piegato. Nessuna differenza tra imprenditori illuminati, tra finti imprenditori, tra quelli che ciurlano nel manico, tra i veri marsigliesi del lavoro. No, nessuna. Le parole di Adriano Olivetti sono totalmente fuori da questo tempo.
Ci vuole però un passo in più, Confindustria. Un passo in più, Corriere della Sera. Abbiate il coraggio di chiedere l’abolizione del contratto a tempo indeterminato, non dobbiamo essere rispettosi di un principio di realtà? Eccolo.
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