Lavoro
Come abbiamo smesso di imparare. Contare
Ciò di cui non si può raccontare, bisogna contare.
Disponendo così, a ritroso, il movimento dalla narrazione all’enumerazione, AMM in pantofole e asciugamani avvolto intorno alla vita, si sentiva un Wittgenstein appeso a testa in giù.
Non smetteva di dirsi, bene, è arrivato il momento di fare un passo indietro, di tornare a pensare in modo binario. Voleva dividere in un gesto creativo la luce dalle tenebre, separare il bene dal male, archiviare il mondo da qualche parte in profitti e perdite, distinguere il punto di pareggio e attenersi rigidamente a non superarlo mai dalla parte sbagliata.
Non avrebbe mai più concesso nulla a se stesso né agli altri. I tempi grigi erano finiti. Arrivava il tempo del bianco o nero.
In questa disposizione genealogica capovolta, ripuliva il pavimento dalle tracce di epistassi. Dormire e basta, questo voleva e questo doveva succedere.
Invece no. Aveva paura di essersi ammalato già e di essere un possibile vettore di contagio. Già si immaginava i titoli del giornale di due settimane dopo. Focolaio in una scuola sede d’esame. Si ricostruisce la catena di contatti. Possibile untore un professore veneziano.
La fine era vicina. Questo pensiero bastava da solo a fargli desiderare di essere già morto. Come avevano ragione quelli. Abituati a pensare di essere già morto. Guarda il mondo da questa prospettiva e scoprirai che non c’è motivo di temere la morte perché se lei c’è, non ci siamo noi, se noi ci siamo, la morte non esiste.
Questo pensiero però non riusciva a consolarlo. Perché invece la trasmissione asintomatica c’è sia che tu abbia il virus, sia che non lo abbia, perché potresti comunque trasmetterlo. In questa virtualizzazione della malattia restava una sola cosa vera, la paura degli altri e la distanza da chi si ama di più.
A due ore dall’esame apriva il manuale per la prima volta. Finalmente aprendolo si era accorto di avere una edizione valida per il turno di tre esami precedenti, 2015. Il libraio amico che glielo aveva venduto consigliava quell’edizione come la Bibbia. In effetti lo era, ma in una versione non adatta alla liturgia del nuovo esame. Sì perché al ritorno da scuola si dilettava nella lettura dell’edizione anastatica originale degli appunti delle lezioni di Hannah Arendt sulla biopolitica. Avendo frequentato assiduamente archivi elettronici e avendo salvato religiosamente tutti ma proprio tutti i riferimenti delle biblioteche frequentate, reali e virtuali, era in grado di accedere a una infinita biblioteca a scaffale aperto. Le ultime lezioni statunitensi di Hannah Arendt riguardavano tutte questo tema. Stava succedendo ora e nessuno contava le pagine degli appunti di Hannah Arendt. Si contavano morti, ancora non morti ma possibili morti, in quanto potenziali vettori di contagio. Il Vivente Tutto era vettore di contagio, si diceva. Era tanato-socialità, la sua. A meno di otto ore dalla prova si accorgeva che a sostenerlo era il desiderio di non farcela. Una specie di voglia di martirio precario. Non fare, non passare, era il suo modo di protestare verso una prova che pretendeva tutto fosse normale, in un momento in cui restava reale e condivisa solo la paura del contagio.
Una nuova pedagogia del virus si era impadronita di tutti. E non riguardava mascherine gel o lavaggio delle mani, no. Era una voragine che si apriva alla base del cranio per finire sotto i piedi, creando distanza, sospetto, disperazione. Contro questa voragine restava una sola cosa da fare. Contare.
Se Newton aveva trovato durante la peste di Londra il coraggio e l’energia di rubare a Leibniz il calcolo infinitesimale a furia di contare morti, al nostro queste virtù difettavano.
Contare le ore e le pagine che lo separavano dalla fine di quel manuale più scaduto di uno yogurt andato a male, contare le probabilità di passare la prova considerando la sua abilità con l’inglese.
Contare.
A questo punto dormiva già.
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