Lavoro

Chi ruba davvero il futuro ai giovani? Intervista ad Alessandra Del Boca

28 Febbraio 2018

Alessandra del Boca è Professore ordinario di Politica Economica all’Università di Brescia e dal 2013 consigliere di sorveglianza di UBI Banca. Ha scritto nel 2017 insieme ad Antonietta Mundo “L’inganno generazionale”
A lei abbiamo chiesto di raccontarci il suo punto di vista sul welfare giovanile e le battaglie inter-generazionali partendo dalla oramai celebre lettera che Confindustria Cuneo ha indirizzato alle famiglie che si apprestano a iscrivere i propri figli alle scuole superiori.

 

Nella lettera del presidente di Confindustria Cuneo si fa riferimento alla “razionalità”- che dovrebbe guidare gli studenti nella scelta di un percorso formativo che formi le figure di cui le aziende hanno bisogno – contrapposta agli “ideali “e alle passioni. È giusto mettere i ragazzi di fronte a questa scelta?
Quella lettera ha aperto un incredibile vaso di pandora. Ci vedo sicuramente un problema preliminare di orientamento: in Germania, già all’asilo, intorno ai 3 o 4 anni, le insegnanti cercano di capire le vocazioni dei ragazzi e di indirizzarli verso le scuole più indicate. In questo Paese manca invece qualsiasi attività di indirizzo e di orientamento a qualsiasi livello del percorso scolare

 

Ma non c’è, dietro quella lettera, anche un problema di visione come spiegato dal Ministro Fedeli?
La lettera ci dice che in Italia c’è un considerevole problema di mismatch. Gli imprenditori fanno questa osservazione: non guardate all’università o alla scuola di vostra aspirazione, cercate un compromesso, guardate anche a quello che le imprese reclamano, se no le vostre aspirazioni vi lasceranno disoccupati. La grande carenza è su profili tecnici. In effetti mentre in Italia escono 8.000 persone da un ITS in Germania sono 800.000. E’ il segnale di un dato culturale importante. Io credo che dobbiamo smetterla di pensare che solo il liceo o la laurea siano il passe-partout per il futuro mercato del lavoro. Il mercato e i bisogni della domanda sono cambiati molto più di quanto sia cambiata la scuola. Esiste inoltre un secondo problema di mismatch che dipende unicamente dalle logiche del collocamento italiano praticamente inesistente e testimoniate dal dato che in Italia l’ 85% dei ragazzi che cercano lavoro si colloca tramite vie personali mentre in Germania è solo il 35% (fonte Eurostat).

 

Siamo il paese della raccomandazioni?
Non per forza! E’ normale che si cerchi lavoro attraverso a una via basata sulla  fiducia personale, questo esiste in tutto il mondo. Ma noi abbiamo un  collocamento che non funziona e che esiste solo se un lavoratore vuole sussidio, non se cerca un lavoro. Per questo i datori di lavoro vanno da società private di placement o si rivolgono al loro network  personale  e non al collocamento pubblico che non è organizzato per fare scouting. Chi vuole davvero un lavoro si rivolge altrove.

 

E qui veniamo al problema della disoccupazione giovanile che Lei ha definito nel libro come un “inganno statistico”. Nella realtà, non sarebbe del 40%, come sentiamo spesso ripetere, ma si aggirerebbe, secondo le sue stime, intorno al 10%. Cosa c’è di sbagliato nel rilevamento dei dati Istat?
L’Istat non sbaglia ovviamente. Il punto è come viene costruito il tasso di disoccupazione. Tradizionalmente è definito come il rapporto percentuale tra il numero dei disoccupati e le forze lavoro cioè gli occupati più i disoccupati.  Nelle classi di età centrali, la quasi totalità della popolazione lavora ma se consideriamo la fascia di età che va dai 15 ai 24 anni è evidente che così non è: meno della metà lavora e anche chi lo fa, trovando per esempio un’occupazione estiva, è contemporaneamente iscritto alle scuole secondarie di secondo grado o all’università.  Da un lato il tasso di disoccupazione non è comparabile a quello delle età centrali, dall’altro entrano a far parte delle statistiche Istat sulla forza lavoro tanti giovani che, finita la stagione, ingrossano automaticamente le fila dei disoccupati mentre nella realtà sono impegnati a studiare!
Sarebbe quindi più corretto, come propone Eurostat, calcolare il tasso di disoccupazione come incidenza dei disoccupati sulla popolazione perché omogeneo in tutte le classi di età. Questo indicatore risulta del 10% nel 2016 e dunque in media con il dato degli altri paesi europei e rappresentativo della vera quota dei disoccupati sulla popolazione in quella classe di età.

 

Detta così potrebbe sembrare una disputa tra tecnici. Ma in realtà dietro il dato statistico si cela anche l’interrogativo se sia giusto spingere i più giovani ad occuparsi in tenera età a discapito della formazione. Lei è convinta che gli under 25 debbano stare sui banchi di scuola piuttosto che cercare un’occupazione?
Certamente, il capitale umano è il bene oggi più prezioso e il più conteso. Non tutti devono stare nell’istruzione a lungo, se non lo desiderano, ma devono comunque attrezzarsi ad avere quelle qualifiche tecniche richieste dalle imprese o percorsi come quelli proposti dai nostri ITS.  La sfida è quella di incoraggiare i ragazzi a investire nella propria formazione e  in capitale umano di qualsiasi tipo e durata. Nel nostro Paese ci sono ancora tanti tentativi di imporre chi non vale ed esistono anche imprese che scelgono i propri manager non per le qualifiche. Ma se non vorranno fallire dovranno premiare i veri talenti e la vera solida formazione a tutti i livelli.

 

A questo proposito, nella prefazione di Maurizio Ferrera a “L’inganno generazionale” si menziona la proposta di riorganizzare il welfare attraverso l’introduzione di strumenti reddituali ( come i «diritti sociali di prelievo» ) che permettano, a chi lo desidera, di tornare temporaneamente a studiare o apprendere nuove competenze senza la preoccupazione di doversi mantenere. Una sorta di trattamento di quiescenza anticipato nei momenti più fragili o cruciali dell’arco della vita. È questo il futuro della previdenza sociale?
In parte questo esiste già. Le cito due esempi menzionati anche da Ferrera in un recente articolo: in Lombardia ogni anno circa trentamila disoccupati usufruiscono della «dote lavoro» che è un sostegno per il reinserimento tramite corsi di formazione e stage. In Puglia settantamila studenti ricevono ripetizioni gratis dalle loro scuole in scienze e italiano. Sono esempi straordinari perché finanziati con Fondi europei. Ma è ancora troppo poco se si considera che si tratta di iniziative spesso sconosciute tra la platea dei possibili beneficiari e comunque molto frammentarie.
Ciò che manca infatti è una vera rete di sostegno per chi non ha mai avuto un’occupazione: in tutto il mondo si riceve un sussidio quando si è perso il lavoro o quantomeno si è provato invano a cercarlo. Non esiste un modello di sostegno per i non-occupati ma va costruito se vogliamo davvero garantire ai giovani la possibilità di formarsi e se non vogliamo privarci del loro contributo alla ricchezza nazionale. Anche perché non soccorrono allo scopo nemmeno le risorse spese nella lotta contro la povertà che rimangono ancora drammaticamente scarse. Qualche sforzo comunque è stato fatto: penso ai provvedimenti sulla decontribuzione del primo impiego che dovrebbe ripagare gli investimenti fatti in formazione.

 

L’orizzonte comunque è europeo.
Assolutamente. Mi piace moltissimo infatti la proposta di una blu “social card” con i simboli europei che ci ricordi plasticamente l’aiuto offerto dall’UE attraverso i suoi Fondi e che elenchi le opportunità garantite a chi decide di spostarsi in uno dei Paesi dell’Unione. Credo che sia doveroso lavorare in futuro per la costruzione di un welfare giovanile di stampo europeo.

 

Qualcuno potrebbe suggerire che l’unico modo per finanziare simili misure di ausilio sia prendere le risorse dalla classe sociale più tutelata ossia i pensionati…
In effetti sono state fatte delle proposte irresponsabili che vogliono tassare ulteriormente ciò che è più che legittimo e che spetta a persone che hanno lavorato una vita intera e che si sono guadagnate ciò che meritano grazie ai contributi versati. Una nuova forma di “ribellismo”  vorrebbe colpire chi è già stato utilizzato come un “bancomat” quando bisognava reperire urgentemente risorse. Si tratta di messaggi di odio sociale lanciati per esasperare una conflittualità che purtroppo esiste e cresce come effetto di  una crescita che ha aumentato le diseguaglianze.

 

Non sono dunque i nonni a rubare il futuro ai loro nipoti?
Si riferisce alla leggenda secondo la quale ritardando il ritiro dalla vita attiva dei più anziani si riducono le possibilità di occupazione giovanile perché non si liberano posti di lavoro? Si tratta veramente di un altro inganno statistico. Le due generazioni non sono sostituibili l’una con l’altra ma piuttosto vivono insieme in maniera complementare.  Ci sono lavori che gli anziani lasciano e che non verranno rimpiazzati né da giovani né da altri. I lavori evolvono verso un maggiore contenuto tecnologico e  i giovani talvolta non hanno le qualifiche richieste dalle imprese per il ritardo con cui la nostra istruzione si adatta ai bisogno della domanda di lavoro che a sua volta cambia velocemente. L’occupazione totale è  dinamica: in ogni momento muta perché l’economia si adatta ai cambiamenti e in ogni momento si creano e distruggono posti di lavoro a causa del progresso tecnico che richiede continuamente nuove competenze. Il mercato del lavoro non è un “gioco a somma zero” e non si può incolpare la Legge Fornero o il Jobs Act anche di questo!

di Davide Zanoni

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