Lavoro
Altro che decontribuzione e jobs act, il lavoro che cresce è a tempo determinato
Oggi l’Istat ha rilasciato i nuovi dati sull’occupazione relativi al mese di agosto 2015 che registrano un rilevante incremento dell’occupazione pari 69 mila nuove unità. I dati sono stati accolti con entusiasmo dal Governo in carica che ne ha attribuito i meriti alle politiche adottate nell’ultimo anno e cioè, da un lato, alla riforma del lavoro contenuta nel Jobs Act che, tra le altre cose, ha introdotto una nuova più flessibile regolamentazione del licenziamento ingiustificato e, dall’altro, alla decontribuzione di circa 8000 euro l’anno per tre anni per ogni lavoratore assunto a tempo indeterminato, prevista dalla Legge di Stabilità.
Taluni osservatori, come l’economista Mario Seminerio, hanno rilevato, alla luce di un esame più attento dei dati, come tale incremento sia più ragionevolmente da attribuire alla ripresa ciclica in atto.
E, infatti, dei 69 mila nuovi posti di lavoro dello scorso mese di agosto, ben 45 mila (quasi i due terzi) sono stati regolati da un contratto a tempo determinato. Nel trimestre giugno-agosto, dei 107 mila nuovi impieghi, i contratti a termine sono stati addirittura 94 mila (circa l’88%).
Tuttavia, l’elemento che più deve far riflettere di questi numeri non è tanto il tentativo, abbastanza comune per qualsiasi governo in carica, di attribuirsi il merito di dati economici positivi ma l’assoluta discrepanza, per un verso, tra quanto gli operatori del settore e gli ambienti di governo effettivamente si aspettavano e, per un altro verso, i dati reali sull’occupazione dei primi nove mesi di applicazione delle nuove regole (tra incentivi e Jobs Act). Non si tratta di “vedere il bicchiere mezzo vuoto” rispetto a una nuova occupazione che è in gran parte ancora regolata da contratti a termine, ma di interrogarci sulle ragioni per cui le imprese non abbiano colto le opportunità che il legislatore ha messo a disposizione. Soprattutto alla luce del fatto che una parte delle nuove condizioni, cioè i rilevantissimi incentivi economici, sono riconosciute solo alle assunzioni effettuate nel 2015 e nulla ancora è dato sapere (per evidenti ragioni di copertura economica) per quanto riguarda gli anni a venire.
Come è stato sottolineato la decontribuzione unita alle nuove regole che riducono a poche mensilità di retribuzione l’indennizzo dovuto al lavoratore per il licenziamento illegittimo, rendono per il 2015 addirittura più conveniente dal punto di vista economico l’assunzione di un dipendente a tempo indeterminato (piuttosto che a termine) anche nel caso in cui il datore di lavoro avesse l’intenzione di licenziare il dipendente dopo 1, 2 o 3 anni (limite massimo di durata dei contratti a termine).
A rigor di logica economica, nell’anno corrente, non si vedono quindi rilevanti ragioni per preferire la forma del contratto a termine in luogo del contratto a tempo indeterminato regolato dal Jobs Act e incentivato dalle disposizioni contenute nella legge di stabilità. Alla luce di questi elementi, i dati forniti dall’Istituto di Statistica appaiono paradossali e inaspettati: il quadro che emerge è, infatti, quello di un sistema produttivo nazionale apparentemente poco sensibile ed elastico alle modificazioni regolamentari e agli incentivi economici. Si possono formulare alcune ipotesi per giustificare tali risultati: in primo luogo la sfiducia inveterata nei confronti dello Stato e della stabilità delle sue norme. Dal punto di vista della disciplina del rapporto, se anche ci fosse il rischio (al momento assai remoto) di un cambiamento delle regole in corsa, il datore di lavoro avrebbe tutto il tempo di sciogliere i rapporti di lavoro e, così, mantenere i vantaggi attualmente concessi. Per quanto riguarda invece gli incentivi, potrebbe avere inciso la diffidenza circa il mantenimento della copertura economica per i tre anni previsti della Legge di Stabilità, ma anche in questo caso, la possibilità di risoluzione del rapporto rimane meno costosa degli importi risparmiati con la decontribuzione.
Inoltre ha probabilmente inciso la scarsa conoscenza (e in taluni casi conoscibilità) del sistema di regole applicabili. D’altra parte, la campagna informativa del Governo sul Jobs Act, per ovvie ragioni di posizionamento politico, è stata completamente impostata sull’obiettivo dichiarato di ottenere più contratti a tempo indeterminato, piuttosto che sulle ragioni di convenienza per le imprese ad assumere con le nuove regole. Sarebbe stato complesso, infatti, trasmettere il messaggio di aver creato le condizioni per la stabilizzazione del lavoro precario e, insieme, che per il datore di lavoro stipulare contratti a tempo indeterminato con le nuove regole è ben più conveniente di assumere a termine, principalmente in ragione della esiguità dell’indennizzo economico previsto in caso di licenziamento ingiustificato.
In ogni caso il segnale che i dati di questi mesi ci consegnano dovrebbe preoccupare molto qualsiasi governo in carica e non perché i dati non siano positivi (l’incremento dell’occupazione, seppur piccolo, c’è ed è un’ottima cosa), ma perché questi rivelano l’apparente indifferenza del sistema economico alla modificazione delle politiche sul lavoro che il legislatore mette in atto.
Per qualsiasi governo, quindi, raggiungere degli obiettivi economici chiari (nel caso di specie, l’abbandono dei contratti a termine in favore del “nuovo” contratto a tempo indeterminato) rischia di diventare una sfida destinata ad essere persa in partenza.
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