Lavoro
“Abolire il lavoro povero”: il lavoro non è finito, checchè ne dica la politica
I dati degli ultimi mesi offrono una lettura positiva dell’andamento del mercato del lavoro, con un tasso di disoccupazione ai minimi termini. Infatti fra il terzo trimestre 2022 e il terzo trimestre 2023 l’occupazione in Italia è aumentata di quasi cinquecentomila unità e il dato più positivo sembra essere proprio legato al crollo dei contratti a termine. Tuttavia questi dati nascondono dinamiche ben più complesse. La più drammatica riguarda l’andamento demografico e l’assenza di lavoratori giovani sul mercato, si potrebbe riassumere la cosa con il dato che le aziende stanno assumendo chi trova sul mercato, ovvero adulti e spesso over quaranta. Chiaro, la dinamica è molto più complessa, ma già queste poche righe possono spiegare prima di tutto i rischi di letture e interpretazioni avventate dei dati, che sono certamente figli di una scienza dura, ma la cui lettura richiede competenze raffinate e strutturate.
E spiegano anche la complessità di analisi non solo del mercato del lavoro, ma di che cosa è il lavoro che è elemento di diritto come di dovere. Il lavoro su cui si fonda la Repubblica Italiana è infatti il lavoro che nasce da una scelta, da una possibilità reale e concreta di emancipazione. Il lavoro è alla base della Costituzione italiana figlia della Resistenza perché letto non a caso come elemento primario di liberazione. Il lavoro quindi molto più sinteticamente come possibilità di una vita migliore. E come tale diviene anche un dovere sociale perché per migliorare la propria vita è necessario migliorare la società. Attorno a questo il dibattito in parlamento è stato vivace e ricco. Con posizioni progressiste e innovative che venivano in particolare dal Partito Socialista e altre – per semplificare – ben più prudenti e realistiche che provenivano dalla Democrazia Cristiana.
Ad oggi di quel dibattito e di quel livello del discorso è rimasto ben poco, anzi quello che si è diffuso o meglio forzando un po’ i termini, quello che si è legalizzato è il lavoro povero. Un lavoro che per nulla emancipa e che anzi limita la libertà del lavoratore negando diritti basilari ormai acquisiti socialmente. Forme di schiavitù il cui termine non ha nulla di folkloristico e tutto di drammatico. Lavori mal pagati resi necessari dall’impossibilità sociale di garantire quegli elementi che rappresentano o rappresenterebbero i suoi stessi fondamenti: diritto alla casa, alla conoscenza e oramai anche quello alla salute. Di lavoro povero scrive Alessandro Somma, professore ordinario di Diritto comparato alla Sapienza Università di Roma e membro dell’Académie internationale de droit comparé, nel libro Abolire il lavoro povero (Laterza) che al di là della provocazione un po’ massimalista del titolo offre un’analisi storica preziosa che illustra con efficacia l’origine dell’attuale dinamica. Prima di tutto la perdita del ruolo dello Stato come elemento regolatore e di garanzia di un diritto ad oggi fortemente calpestato che vede uno dei paesi più ricchi al mondo offrire lavori poveri ad un lavoratore su quattro.
Una perdita di ruolo che a dire il vero è frutto di una lunga assenza dello Stato che fino agli anni Sessanta anche per evidenti difficoltà economiche preferì agevolare il lavoro per il lavoro. Solo negli anni Settanta si ha un’inversione di tendenza con riforme efficaci e un tentativo in parte compiuto di redistribuzione, ma ad oggi l’Italia spicca per una generale inadeguatezza legislativa ed una forte incapacità di visione del contesto. Spicca invece un dibattito spesso fuorviante attorno al reddito minimo di cittadinanza, soluzione possibile e alla portata di mano, ma resa inefficace da posizioni preconcette e ideologiche. Somma immerge la questione italiana all’interno del contesto europeo, mostrandone soluzioni e possibilità, ma anche un’ipocrisia troppe volte spacciata per visione: «Del resto l’Europa unita è solita impegnarsi periodicamente a ridurre la povertà e l’esclusione sociale, ponendosi però nel merito obiettivi inesorabilmente destinati a non essere raggiunti, e a confermare così l’ipocrisia che caratterizza i discorsi sulla dimensione sociale. E a farli apparire per quelli che sono: la cortina fumogena sotto la quale occultare la vera essenza della costruzione europea, ovvero il suo costituire un vincolo esterno volto a incalzare e sostenere l’ortodossia neoliberale come fondamento dello stare insieme come società». Un neoliberismo dunque che più che male perenne di ogni cosa, resta fortemente come velo ideologico sotto il quale confondere il dibattito, mischiando le carte e stabilendo una visione sostanzialmente reazionaria dell’impianto sociale.
Somma invoca una forma di democrazia economica che se da un lato offre il fianco all’ennesima etichetta difficile da rendere plausibile (per quanto condivisibile nel suo impianto), dall’altro offre una visione possibile che si basa su una lettura della storia e delle necessità sociali chiara e preziosa. Una sostanziale e forte richiesta di ritorno della politica: «La politica deve poi tornare a governare i mutamenti che caratterizzano il lavoro: deve smetterla di riprodurre il mantra della sua fine per avallare la sua precarizzazione, e prendere parte attiva all’eterna competizione tra sviluppo tecnologico e inventiva, per ricordarsi che storicamente questa competizione è stata vinta dalla seconda. Certo, il protagonismo di coloro i quali hanno imposto e presidiato il patto di cittadinanza incentrato sul lavoro è ora fortemente compromesso: i lavoratori sono sfiancati dalla precarietà e dalla povertà, isolati e ostacolati nella loro capacità di esprimere una mobilitazione con cui “invertire la marea di un neoliberalismo truce”. Ma è proprio questo il punto: la fine di quel protagonismo è alla base della cosiddetta fine del lavoro e questo è un fatto politico.».
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