Benessere
A chi serve lo smart working? Cronaca di un mese agile, non leggero
In origine è stato banalmente il bar. Ma poi il casino nelle pause pranzo, le sedie rumorosissime durante le lunghe pulizie prima della chiusura…ho desistito, nonostante avessero iniziato a farmi tacitamente lo sconto dipendenti. Poi è stato il “fuori”: un enorme spazio triste per i fumatori. Ma ovviamente puzza di fumo, caldo, telefono che si surriscalda, occhiali da sole incompatibili con lo schermo del PC. Allora, l’idea: nutrizione e diabetologia, ortopedia, chirurgia generale e urologia, ovviamente, psichiatria: ho iniziato a lavorare dalle sale d’aspetto dei reparti, direi quasi tutti. Mento: in realtà ho saltato rianimazione, troppo buio, seriamente, e malattie infettive: zero voglia di trovarmi a fare call in compagnia di qualcuno con recidive di morbillo o ipotetici malati di vaiolo delle scimmie. Ho saltato anche pediatria, reggo tutto ma bambini all’ospedale, no. Gag carine, talvolta. La migliore fuori da psichiatria. Mi chiedono: “ha bisogno?” E io devo aver fatto una faccia che voleva dire: in effetti avrei bisogno. Ma poi ho detto: “grazie no scusi, mi sono appoggiata qui a lavorare, do fastidio no faccia pure” – stop. Che poi lo psichiatra era un fricchettone con le Birkenstock, ispirava fiducia. Comunque, poi è stata la stanza, la stanza di mio papà.
Ho lavorato dalla sua stanza tutte le volte che è stato operato, a oggi quattro. Ho pensato: quando torna mi vede subito ed è felice. Ho pensato pure: appena torna parlo subito con i medici. Ho pensato anche: se lavoro altrove oggi non combinerò niente, finché sto qui da sola invece posso fingere che questo sia il mio ufficio. Ho lavorato molto bene e molto male, ho ringraziato mentalmente i colleghi di call inutili che mi hanno aiutato a passare alcune ore difficili in giornate dure, ho ringraziato i colleghi che mi hanno evitato call inutili quando non avevo cervello per farle. Ho fatto dei buoni documenti e telefonate, a volte il mio cervello ha srotellato a vuoto, pensavo: mio papà ora muore e io sto pensando a delle cazzate, poi pensavo: mio papà ora muore e non ha capito che lavoro faccio, con questo zainetto sulle spalle. Ho fatto qualche piccolo errore, ho dimenticato qualcosa, nulla di molto diverso da come sarebbe stato in ufficio. Mio papà ha resistito.
Nell’immaginario comune lo Smart working è lavorare a bordo di una lussuosa piscina o dalla casa al lago anziché imbottigliarsi nel traffico di Roma o Milano. Per qualcuno è sfruttare quelle due ore tremende in cui tocca seguire i figli nella triade mortale danzakaratenuoto. Per molti è godere l’ora mattutina per correre, la pausa pranzo per fare la lavatrice. Io, a parte i figli, ho fatto tutto questo e trovo che lo Smart working sia ottimamente tutte queste cose. Quello che però ho sperimentato in queste settimane è stato ancora altro, e importante. È stata linfa vitale per seguire mio padre, nel momento più delicato della sua vita. È stato il lusso grande di poter avere accanto il mio compagno (anche lui a sperimentare i miei stessi strani spazi) pure se era impegnato tutto il giorno in riunioni virtuali, documenti, presentazioni, organizzazioni: lavoro.
Nel dibattito su Smart working sí o no, Smart working è per fighetti o per persone normali – io ho sperimentato con la mia pelle che può essere un modo eccezionale per coniugare la propria vita, anche quando va a rotoli, con il lavoro (ovviamente, quando si può, quando ce la si sente). I miei colleghi ne hanno ricavato, spero, qualcosa. Non li ho abbandonati per settimane al loro destino, sono stati partecipi con me di quello che mi succedeva, siamo stati vicini, ho dato supporto all’ufficio al mio meglio. Io da loro e dal mio lavoro in sé ho tratto tantissimo: ho impegnato la testa in qualcosa di utile in giorni in cui davvero avrei avuto voglia realmente solo di distendermi per terra e raggomitolarmi su me stessa (unica consolazione: sarebbe venuto, credo, il fricchettone con le Birkenstock). Grazie al lavoro ho anche riso e scherzato, ho pensato a tanto altro che non fosse la desolazione dentro la quale mi trovavo, mi sono sentita collegata con la mia vita di sempre. Non solo: non ho perso un giorno di stipendio in un momento in cui per mille ragioni ho scoperto che mi servivano piu soldi del previsto, e questa è stata una bella preoccupazione in meno. A questo punto tocca una specifica importante: io tutto questo ho avuto la fortuna di sceglierlo e di poterlo avere (parlo dello Smart working, non del casino medico di mio papà, purtroppo). Non è sempre possibile per un milione di ragioni e ha tutta la mia stima e la mia solidarietà chi invece decide di dedicarsi a chi ha più bisogno. Peraltro, la nostra disavventura viaggia ancora con una mappa strapazzata e minima, giorno per giorno, quindi non so come andrà. So però che nel dibattito sul lavorare agile o no, è importante che non si perda mai di vista il benessere delle persone, nei loro momenti migliori e in quelli più atroci. So che domani faticherò ad aprire il PC, ma sarà una cosa utile a tutti, per restare in equilibrio. Sarà difficile, forse impossibile lavorare con il sorriso eppure chissà…fuori dal reparto maxillo facciale tutto è possibile
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