Innovazione

Una campagna elettorale che se ne frega del Sud e delle fabbriche

28 Febbraio 2018

La campagna elettorale è lontana dai problemi e dalle sfide reali del Paese. A cominciare dal divario, sempre più forte, tra Nord e Sud. Il Meridione è uno dei grandi assenti di questa campagna elettorale (con buona pace del suo potenziale umano, culturale ed economico). Ne abbiamo parlato con Emanuele Felice, professore di economia applicata all’Università di Chieti-Pescara e autore del fortunato saggio “Ascesa e declino: storia economica d’Italia”. «L’Italia – ricorda a Gli Stati Generali l’economista – è il paese con il divario territoriale interno più grave di tutto l’Occidente. Un divario che continua ad aggravarsi, e non solo a livello di reddito. [In questa campagna elettorale] non si è parlato per niente di un terzo del Paese».

Tra gli altri temi assenti dal dibattito elettorale, l’Europa. La politica industriale. L’ambiente. E l’innovazione; che è, lo riconosce Felice, «un tema complicato, che richiede una serie di interventi diversi dalle promesse facili». E se nel Belpaese il populismo abbonda, è perché l’Italia sta uscendo sconfitta dalla globalizzazione. Soprattutto, ne sta uscendo sconfitto il ceto medio.  Che è «l’ossatura dei sistemi liberaldemocratici delle democrazie moderne, e in Italia è stato colpito più che altrove dalla globalizzazione… per responsabilità delle classi dirigenti italiane, e di coloro che le hanno votate».

Innanzitutto professore, come giudica questa campagna elettorale? Molti osservatori e media, sia in Italia che all’estero, l’hanno qualificata come una delle più brutte della storia della Repubblica…

Beh, non è molto scientifico parlare di “bruttezza” [ride]. Diciamo che è una campagna elettorale che si è occupata poco dei problemi veri che ha l’Italia. Non si è parlato per niente di politica industriale, né di Mezzogiorno…. E l’Italia, è bene ricordarlo, è il paese con il divario territoriale interno più grave di tutto l’Occidente. Un divario che tra l’altro continua ad aggravarsi, e non solo a livello di reddito. Voglio dire, non si è parlato per niente di un terzo del Paese. Ma non si è parlato neanche di Europa, che è fondamentale per la politica economica. Infine, non si è parlato di ambiente; e la Pianura padana, in cui vive quasi la metà degli italiani, è una delle zone più inquinate d’Europa.

Si è parlato molto di immigrazione (con più o meno cognizione di causa), ma poco o niente di politica industriale. Com’è possibile che un tema del genere sia assente considerando che l’Italia è la seconda potenza manifatturiera europea, e che l’industria resta un pilastro della nostra economia?

La questione è complessa. Intanto bisogna intendersi su cos’è la politica industriale. Di certo significa creare le condizioni che permettano alle imprese di produrre al meglio. E questo vuol dire infrastrutture, vuol dire politiche per l’innovazione, vuol dire una giustizia e una PA funzionanti. Per quanto riguarda queste tre condizioni minime della politica industriale l’Italia è carente rispetto agli altri paesi avanzati d’Europa, eppure in campagna elettorale non se ne è parlato. E ci sono altre due cose di cui non si è parlato. La prima è una politica per le aree in condizioni di svantaggio economico, nel nostro caso il Mezzogiorno. Il secondo tema è poi il seguente: dato che noi siamo un Paese di PMI che fanno fatica a innovare appunto perché sono piccole, e dato che abbiamo una grande impresa privata debole, non sarebbe insensato porci il problema di una sorta di IRI per l’innovazione… un’iniziativa del genere, anche su stimolo pubblico come dice per esempio la Mazzucato, dovrebbe poter guidare l’innovazione in alcuni settori strategici. Ma di questo non si è parlato. Eppure potrebbe avere senso, anche in sinergia con quello che resta delle nostre imprese pubbliche e private ad alta tecnologia.

Dunque tre sfide di politica industriale.

Tre livelli di politica industriale. A partire dalle condizione di base, dove siamo ancora carenti. Segue il tema del Mezzogiorno, che da noi è particolarmente importante. E poi, volendo, si potrebbero varare anche delle politiche pubbliche volte all’innovazione.

Parliamo di Mezzogiorno.

Guardi, la questione è la seguente. Dalla fine degli anni Ottanta l’Europa ha messo in campo degli aiuti per le regioni europee in ritardo; questi aiuti, se utilizzati bene, possono aiutare la convergenza, lo sviluppo regionale. E infatti, laddove sono stati usati bene, in Polonia come in Spagna, hanno sortito precisamente questo risultato. L’unica area europea significativa dove non sono stati utilizzati bene è l’Italia, perché demandati alle regioni. Che spesso non sono in grado di fare una progettazione di lungo periodo.

La soluzione?

Noi avremmo dovuto riformare la politica dei fondi di coesione, come era stato pensato dal governo Letta quando c’era Carlo Trigilia, che aveva avuto l’idea dell’Agenzia per la coesione territoriale. Agenzia che poi è stata istituita da Renzi però non si fa ancora progettazione sui fondi europei. Se si riformasse il sistema questi fondi europei potrebbero essere usati per le infrastrutture del Sud, per grandi assi infrastrutturali sia a livello di trasporti che a livello telematico, in modo da porre il Sud allo stesso livello del Centronord. Questa è una questione fondamentale, e a costo zero tra l’altro. Faccio anche notare che le elezioni si decidono nel Mezzogiorno, perché lì c’è la maggior parte dei collegi in bilico tra centro-destra e 5 Stelle. Il centro-sinistra invece è terzo in quasi tutti i collegi maggioritari del Sud. Ma come viene affrontata la questione meridionale dai partiti? Sia il centro-destra che il centro-sinistra la affrontano con la vecchia politica dei notabili, promettendo di realizzare questo o quello quando saranno al governo. I 5 Stelle invece propongono misure sostanzialmente assistenzialiste. Il reddito di cittadinanza dei 5 Stelle è rivolto ai giovani senza lavoro, quindi soprattutto ai giovani del Sud, ed è una misura assistenziale.

Un altro grande assente è il tema dell’innovazione. A parte pochi politici, alcune piccole formazioni, non se ne è parlato. Lei cosa pensa di questa mancanza?

Penso che così non si sia parlato del problema più grave dell’economia italiana, se non dell’Italia tout court. Ossia l’incapacità di produrre innovazione, che determina il nostro declino economico. In un certo senso la cosa si spiega. Nel dibattito pubblico, tra le ragioni del declino, la classe politica ha sempre dato scarso peso all’innovazione; ha gettato la colpa dei problemi sull’euro o sulla rigidità del mercato del lavoro, che invece secondo me (e anche secondo altri studi) non sono le ragioni principali del declino italiano degli ultimi venti anni.

La ragione principale è invece che nel mondo globale, con l’Asia che emerge, noi non riusciamo a specializzarci nei settori più avanzati e a più alto tasso d’innovazione. Ma questo tema, che è piuttosto complesso, viene evitato sia dalla classe politica sia dalla classe imprenditoriale. Perché è un tema complicato, che richiede una serie di interventi diversi dalle promesse facili. Ad esempio, in Italia abbiamo una bassa tassazione sulla rendita e un’alta tassazione sui fattori produttivi. Ma se si dice che è stato sbagliato ridurre la tassazione sulla rendita (togliendo la tassa sulla casa, per esempio), tutti insorgono.

C’è una sorta di circolo vizioso che induce a questo, e c’è una classe politica che da vent’anni procede su questo registro, con gli elettori che le vanno dietro. E intanto i giovani, con il maggior capitale umano, se ne vanno dove il capitale umano viene premiato di più. E invece chi rimane discute, ma discute o della moneta unica, o della rigidità del mercato del lavoro, o della tassa sulla prima casa, o di altre amenità come il canone RAI e cose del genere, capisce? E intanto il mondo va…

Non si è parlato neanche di università e ricerca.

Anche questo è correlato. Noi siamo da decenni il Paese con la più bassa percentuale di laureati nel mondo avanzato, e basta questo a spiegare il declino economico dell’Italia. O certi fenomeni, come i “no vax”.

Quali dovrebbero essere le priorità che il nuovo governo italiano, di qualsiasi colore, dovrebbe far presente a Bruxelles?

Con Gentiloni abbiamo ottenuto l’approvazione europea per le zone economiche speciali per il Sud Italia, per esempio. Ci è voluto un anno di contrattazione, perché potevano essere visti come indebito aiuto di Stato. Ora però, spinti dalla vicenda dell’azienda che ha delocalizzato in Slovacchia, protestiamo perché la Slovacchia ha fornito aiuti ad alcune aziende che delocalizzano. Il punto è che quegli aiuti che bolliamo in Europa come concorrenza indebita sono molto simili a quelli che abbiamo ottenuto per le zone economiche speciali (ZES). Quindi in termini di politica economica è un po’ complicato capire cosa dobbiamo chiedere all’Europa… Probabilmente dovremmo chiedere – ma questo poi dipende da noi – di venirci incontro lanciando, per esempio, un grande piano infrastrutturale europeo che potremmo usare per modernizzare le infrastrutture del Sud. O facendoci scorporare la spesa per infrastrutture dai limiti di budget…

Mario Draghi continua a sostenere la bontà delle sue politiche monetarie. Secondo lei un’eventuale concomitanza fra instabilità politica italiana e la fine del mandato Draghi potrebbero arrecare gravi problemi all’economia italiana?

Sì. Ma più che dall’instabilità italiana dipende dal successore di Draghi. In questi anni noi abbiamo beneficiato molto delle politiche di Draghi, che hanno salvato l’Italia e forse anche l’intera eurozona. Se il successore di Draghi sarà un falco questo ci creerà molti problemi. Qualche mese fa sembrava quasi sicuro che arrivasse un falco mentre ora sembra meno probabile, però il rischio c’è.

Per quanto riguarda l’instabilità italiana, bisogna vedere cosa si intende per instabilità perché paradossalmente, se significa un interim di Gentiloni per alcuni mesi e poi un nuovo voto, in realtà è la cosa più stabile che potremmo avere. Se invece, paradossalmente, si ha un governo di centro-destra, cioè un chiaro vincitore (che in teoria sarebbe il risultato di maggior stabilità) … beh, un centro-destra al governo con due linee diverse sull’Europa è la cosa più instabile che ci sia. Perché non sai se c’è un governo europeista o anti-europeista.

Questa campagna elettorale è stata dominata da sentimenti – diciamo così – negativi: si fa leva sulla rabbia, sulla paura, appunto su emozioni negative. Lei che ha scritto il saggio “Storia economica della felicità” cosa pensa a riguardo?  

Penso che l’Italia sia il Paese dell’Occidente più ferito dalla globalizzazione, in particolare il ceto medio italiano, e che la campagna elettorale rifletta questo fatto. C’è stato un generale miglioramento delle condizioni economiche a livello mondiale, anche delle condizioni della vita civile, della cultura. In un certo senso noi viviamo, a livello mondiale, nell’epoca migliore di tutta la storia umana. Questo però non si riflette sull’Italia, e in particolare non si riflette sul ceto medio italiano; e il ceto medio è l’ossatura dei sistemi democratici. Ora, tutto il ceto medio occidentale negli ultimi vent’anni non se l’è passata bene, ha subito la concorrenza dei Paesi emergenti dove centinaia di milioni di persone sono uscite da una povertà millenaria, materiale e anche morale e intellettuale. In Occidente la diseguaglianza è aumentata, e questo ha creato i fenomeni che abbiamo visto, ad esempio il populismo.

Tutto questo in Italia è ancora più grave perché noi siamo il Paese occidentale cresciuto meno negli ultimi vent’anni, e siamo il Paese in cui le condizioni del ceto medio sono peggiorate in termini non solo relativi, rispetto ai paesi emergenti, ma anche assoluti. E ciò si traduce in una campagna elettorale arrabbiata e in forze populistiche molto forti: se sommiamo i voti delle forze anti-sistema, anti-Europa, a destra e sinistra, siamo vicini al 50%. Negli altri paesi avanzati non c’è un consenso così ampio per queste formazioni. Il ceto medio è l’ossatura dei sistemi liberaldemocratici delle democrazie moderne, e in Italia è stato colpito più che altrove dalla globalizzazione… per responsabilità, aggiungo, delle classi dirigenti italiane, e di coloro che le hanno votate.

 

 

 

Foto in copertina: Pixabay

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