Innovazione
Un viaggio nell’Italia che sforna startup
Non tutti lo sanno, ma l’Italia è una potenza mondiale della scienza. Ad esempio in base allo SCImago Journal & Country Rank (portale che offre una dettagliata graduatoria bibliometrica dei singoli paesi), l’Italia è all’ottavo posto nel mondo per citazioni, dopo la Cina e il Canada, e prima di paesi come l’Australia, la Spagna, la Svizzera e l’India. Nella graduatoria per H index è settima. In alcuni settori di grande rilievo, come la fisica matematica, l’ematologia o l’astronomia e astrofisica, siamo addirittura tra i primi cinque. Anche quanto a Nobel ce la caviamo piuttosto bene (20), e alcuni dei maggiori risultati scientifici degli ultimi anni hanno visto il coinvolgimento di ricercatori italiani (dalla scoperta del Bosone di Higgs ai progressi delle terapie geniche, sino alla lotta all’influenza aviaria e all’Ebola).
Ma se nella ricerca scientifica (e tecnologica) l’Italia se la cava egregiamente a dispetto di una spesa in R&D sotto la media europea, non si può dire lo stesso a livello di innovazione. Nel Global Innovation Index siamo al 29° posto, sotto grandi e piccoli paesi come l’Australia, l’Estonia, Malta, la Spagna. Lontanissimi dai primi otto piazzamenti. «In Italia manca una vera cultura dell’innovazione – spiega a Gli Stati Generali un luminare del biotech tricolore che preferisce non dire il suo nome – Negli USA o in Inghilterra è normale che un accademico lanci la sua startup, se lo fai in Italia ti accusano di pensare ai tuoi interessi, di volere fare soldi e non ricerca…»
Mancano, soprattutto, i grandi campioni dell’innovazione: senza scomodare la Silicon Valley, con i suoi Google e i suoi Amazon, pensiamo soltanto alla Svezia di aziende come Ericsson, Spotify e Skype, alla Svizzera delle multinazionali farmaceutiche, alla Finlandia di Rovio e Supercell, alla Francia di realtà ICT come Ubisoft, Iliad, Dassault Systèmes, BlaBlaCar (per non parlare di aziende di innovazione hardware come Alstom, Thales, Areva…).
Alcune delle aziende citate sono su piazza da svariati decenni. Ma altre erano startup dieci o vent’anni fa, e oggi valgono miliardi. Perché una startup possa trasformarsi in un gigante, è cruciale che trovi un ecosistema a essa favorevole. Gli acceleratori e gli incubatori di startup, in questo senso, svolgono un ruolo chiave. Certo, l’Italia non è stata una pioniera a riguardo, ma ora le strutture ci sono. Ed è anche grazie a loro se il paese vanta quasi 8 mila startup innovative (ICT, ma anche biotech, manifatturiere, cleantech, creative…), e se sta finalmente emergendo sulla scena dell’innovazione europea.
Nel Nordest, per esempio, ci sono H-Farm (privato, e attivo dal lontano 2005), l’incubatore di AREA Science Park a Trieste, M31 a Padova. In Piemonte c’è ad esempio I3P, del Politecnico di Torino. Nella Lombardia delle quasi 2mila startup innovative operano realtà molto interessanti da Varese a Pavia, passando ovviamente per Milano (come PoliHub, del Politecnico di Milano).
Una di queste realtà lombarde è ComoNExT, nato come parco scientifico tecnologico su iniziativa della Camera di Commercio locale 7 anni fa. Un incubatore certificato dal Mise dove oggi operano 125 aziende, di cui 30 startup. Qui è insediata la prima fabbrica europea di grafene, quotata alla borsa di Londra, e la filiale italiana di una grossa azienda alimentare.
«Ogni giorno qui lavorano circa 650 persone – racconta a Gli Stati Generali Stefano Soliano, general manager – non abbiamo una connotazione specifica, di fatto siamo generalisti. Qui troviamo aziende del settore aerospaziale, del digitale e del manifatturiero, che operano nella robotica, nei nuovi materiali, nell’intelligenza artificiale, nell’industria 4.0, nell’IoT… Facciamo la cosiddetta cross-fertilization, un modello che coinvolge anche le associazioni di categoria, le università, i centri di ricerca».
L’incubatore, continua Soliano, partecipa anche al fondo VC Como Ventures, e collabora in iniziative di ricerca e progettazione con il Politecnico di Milano (socio di Como NExT), la LIUC, la Cattolica, la Bicocca, la Sapienza di Roma. «La nostra missione è attirare aziende innovative offrendo servizi di base e una community di innovatori, per poi mettere a fattore comune l’innovazione attirata e favorire il trasferimento tecnologico verso le aziende del territorio, anche al di là del comasco».
Nel sud del Distretto Aerospaziale Pugliese e dell’Etna Valley c’è ad esempio Campania NewSteel. Nato un anno fa, è un incubatore certificato, e il suo obiettivo è ambizioso: contribuire alla creazione di una knowledge economy come driver di competitività. Il nome, “nuovo acciaio”, è in memoria del vecchio stabilimento siderurgico di Bagnoli, a Napoli, la cui chiusura nei primi anni ’90 causò un’ondata senza precedenti di disoccupazione.
«È una realtà molto giovane, ma si basa su vent’anni di creazione d’impresa da parte della Città della Scienza – nota il direttore generale Mariangela Contursi –, che negli ultimi anni ha contribuito alla nascita di circa 150 startup con un tasso di sopravvivenza oltre il terzo anno dell’85%». Soci di Campania NewSteel, proprio la Città della Scienza e l’università Federico II di Napoli.
Tra le aree di specializzazione spiccano cyber security, industria 4.0, digitale, agrifood e blue e green economy. «La maggior parte delle nostre startup sono campane – continua Contursi – però sono venute anche dalla Basilicata, dalla Puglia, dei napoletani che si erano spostati in Lazio sono tornati qui. Abbiamo avuto delle startup spagnole e americane, addirittura c’è stato chi dalla Mongolia è venuto a insediarsi in Italia».
A parere di Contursi è in atto una trasformazione dell’economia di Napoli che fa ben sperare. Grazie ad università locali di qualità (in ingegneria civile la Federico II è una delle migliori d’Italia) e ad attori come l’accademia europea per sviluppatori della Apple, «si è innescato un meccanismo per cui anche altre grandi aziende guardano a Napoli come una meta interessante per investire».
Spostandosi un po’ più a nord, a Roma, c’è LUISS ENLABS, l’acceleratore operato dalla società LVenture, ora attivo anche a Milano. «In quanto acceleratore noi selezioniamo delle startup con i team già formati e pronte ad andare sul mercato in 6-8 mesi – dice Luigi Capello, ad di LVenture e fondatore dell’acceleratore –. Abbiamo anche un programma di incubazione sull’intelligenza artificiale, ma il nostro main business è l’accelerazione. 8 startup su 10, dopo i nostri programmi, ottengono finanziamenti da terzi e poi da noi. Abbiamo creato un gruppo di 70 business angel e solide relazioni con co-investitori. Abbiamo un portafoglio di 55 startup, che nel complesso hanno raccolto 28 milioni di euro».
Non male, se si pensa che in Italia i cosiddetti “capitali di ventura”, i VC, sono praticamente inesistenti. Una vera sfida per le nostre startup. Tanto per dare un’idea, secondo Dealroom tra le 500 maggiori società di VC attive in Europa, l’Italia ne conta 8 contro le 90 del Regno Unito, le 11 della piccola – quanto a popolazione – Svizzera, e le 22 della Spagna! E per trovare la prima società VC italiana nel ranking bisogna scendere alla 127esima posizione, mentre la seconda è 245esima. Stando ai dati dell’Osservatorio startup hi-tech della School of Management del Politecnico di Milano, l’anno scorso si sono investiti 182 milioni di euro nelle nuove aziende innovative made in Italy, 217 milioni aggiungendo gli investimenti di soggetti internazionali. Un dato migliore rispetto ai 147 milioni del 2015 ma, segnalano gli addetti ai lavori, da incrementare. E in fretta.
«Se guardiamo ad altri paesi, come Francia o Portogallo, mi sembra che noi non ci stiamo muovendo alla stessa velocità – spiega Marco Bicocchi Pichi, presidente di Italia Startup –. E fondamentalmente ciò è dovuto alla mancanza di investimenti privati. In Italia c’è una tendenza a rifiutare il rischio: chi ha grandi patrimoni oggi tende a investire attraverso prodotti più liquidi, che possono avere ritorni importanti. E chi sceglie di investire nel settore VC lo fa in mercati più maturi e strutturati, tipo Stati Uniti, Israele, Cina…»
Uno scenario confermato da Capello. «Il mercato in cui operiamo noi, quello dei business angel e degli investimenti early stage e seed, è molto vivace, specie grazie alle agevolazioni fiscali che sono state introdotte. Però se guardiamo ai round superiori al milione di euro i soldi scarseggiano e anzi, quest’anno sono letteralmente crollati». In effetti, se nel 2016 le startup italiane avevano ottenuto finanziamenti per oltre 180 milioni di euro, tra gennaio e settembre di quest’anno si sono raccolti solo 9,4 milioni.
Un trend inadeguato, soprattutto se lo si confronta con quelli di altri Paesi. L’Italia non sfigura solo di fronte a giganti dell’innovazione come Israele, la “startup nation”, dove l’anno scorso le aziende hi-tech si sono aggiudicate 4,8 miliardi di dollari. Nel 2015 le startup spagnole hanno ottenuto circa 660 milioni di euro, contro i 133 milioni del Belpaese.
E purtroppo, anche con un’ottima ricerca come quella italiana e le numerose iniziative a favore di startup e aziende hi-tech, «senza i soldi dei VC l’innovazione resta nana, senza possibilità di sviluppo – continua Capello –. Con le risorse che ci sono penso che in Italia abbiamo fatto dei miracoli. Il punto è che gli altri paesi europei stanno andando avanti e come sempre, se resti fermo sei penalizzato».
Per Bicocchi Pichi la scarsità di VC in Italia non è dovuta solo a un innato rifiuto del rischio (elemento che contraddistingue anche realtà molto più dinamiche come la Svizzera). «Manca anche una sorta di patriottismo economico – conclude –. Se si hanno dei capitali ma si parte da una visione di pura ottimizzazione del guadagno, allora l’Italia non è il paese dove investire. Per farlo c’è bisogno di una motivazione che vada al di là del ritorno economico, bisogna aver voglia di sostenere il paese, e di contribuire allo sviluppo di una nuova generazione di imprenditori».
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